Corriere della Sera, 12 febbraio 1979
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Biografia di Jean Renoir
Jean Renoir, Montmartre, 15 settembre 1894 – Beverly Hills, 12 febbraio 1979
Il grande maestro del cinema francese, venerato come un mito inarrivabile da generazioni di critici e cineasti di tutto il mondo, il regista che ci ha lasciato alcuni autentici monumenti di una poesia densa, carnale, sanguigna, in parte ereditata da quel padre illustre che fu il pittore Auguste Renoir, ma spremuta da un nuovo mezzo espressivo che lui stesso ha grandemente contribuito ad attestare sul piano dell’arte, si è spento, come un vecchio filosofo che aveva capito tutto della vita, nel suo dolce e ormai decennale ritiro sulla collina ai margini di Hollywood.
Immaginiamo il suo trapasso, a 84 anni, come il più sereno che uomo possa mai desiderare, con la coscienza di un’esistenza interamente spesa per un «mestiere» che adorava come un dono divino e al quale univa il piacere della conversazione tra amici bevendo vino rosso davanti a un piatto di formaggio di Brie. Se non bastassero i suoi film, anche dalla raccolta degli scritti di Jean Renoir (pubblicati di recente in italiano da Longanesi) si rileva la pienezza della sua umanità, il suo amore per la gente comune che popola i panorami delle periferie parigine e con cui s’intratteneva in «pigri» conversari, che erano invece occasioni di acute osservazioni che poi si traducevano nelle immagini dei suoi film.
Riassumere l’importanza del grande patrimonio che Renoir ci ha lasciato con i suoi 38 film realizzati tra il 1924 e il 1969 non è cosa facile, anche perché essi riflettono momenti diversi non privi di contraddizioni, sia pure in armonia con l’evoluzione di quel concetto di «realismo» che, con l’apporto di un ricchissimo bagaglio culturale e di sensazioni assorbite da specifiche atmosfere sociali, resta comunque alla base della poetica renoiriana. Si può tentare tuttavia di dividere la sua opera in due periodi fondamentali, tra i quali fa da splendido diaframma quel vertice metafisico dei suoi interessi umani ed artistici, quel capolavoro di sarcasmo, eppure non privo di tenerezza, che è La règie du jeu del 1939.
Le prime esperienze cinematografiche di Renoir, da La fille de l’eau (1924) a La piccola fiammiferaia (1928), risentirono del clima intellettualistico dell’avanguardia francese di quegli anni. Prima d’allora, egli aveva abbracciato la carriera militare partecipando alla guerra mondiale come ufficiale dei Cacciatori delle Alpi (sui Vosgi venne ferito gravemente ad una gamba) e poi come ufficiale d’aviazione (esperienza di cui si sarebbe ricordato per La grande illusione). Nel dopoguerra abbandonò presto la passione per l’arte della ceramica affascinato dalle maggiori possibilità espressive che poteva offrirgli il cinema (e la folgorazione gli venne assistendo ai film di Erlch von Stroheim, sempre riconosciuto come il suo vero grande maestro).
Ma di quel primo impatto di Renoir con la tecnica del cinema, c’è un solo film che egli amava ricordare, ed è Nana (1926), ispirato al romanzo di Zola, per cui il regista diede la prima prova di un talento naturalista che si sposava a un pittoricismo non esente dall’influenza paterna. Era il primo abbozzo di quel «realismo magico» che avrebbe sviluppato in tutto l’arco degli anni Trenta, trascorrendo da La chienne (1931), cruda radiografia dei rapporti d’una coppia, a quel Toni (1934) realizzato all’aria aperta nella campagna marsigliese, che può considerarsi un precursore del nostro neorealismo qualora si rilevi la grande influenza esercitata su Ossessione di Visconti (non a caso aiuto-regista di Renoir proprio in quella occasione).
Da queste due tappe si sviluppa quel «populismo» di Renoir in parte alimentato da una specifica cultura letteraria francese, ma arricchito dalla adesione entusiastica del regista alla causa del Fronte Popolare, abbracciata dapprima (Le crime de Monsieur Lange) con una punta di anarchismo romantico (c’era anche lo zampino dello scenarista Jacques Prévert) e poi sviluppata con una più personale riflessione sugli squilibri e le ingiustizie di classe. Ed ecco Verso la vita (1936), dove l’umanesimo rivoluzionario del Gorki di «Bassifondi» viene trasferito, pur con residui letterari, nel panorama francese, per arrivare l’anno dopo, con l’intermezzo dello squisito poemetto Une partie de campagne (inserito in un paesaggio caro al padre Auguste come a Manet), alla severa lezione umana di La grande illusione, autentica punta di diamante della riflessione sociale e poetica dell’artista: opera piena di presagi tragici e angosciosi, di speranze vive e sempre tradite. Sono le speranze di cui si fanno forti un umile operaio parigino e un piccolo ebreo, prigionieri francesi d’un campo di concentramento tedesco durante la prima guerra mondiale, i quali, malgrado tutto, riescono ad illudersi di difendere la propria esistenza dai tranelli di una società che li vuole sopprimere e di una guerra che sbarra i popoli in cortine di fuoco.
Di questo film di piena maturità stilistica, che va molto oltre la semplice etichetta realistica, restano i segni in un’opera pur tanto diversa come L’angelo del male, tratta ancora da Zola, suggestivamente marcata da quel «fantastico reale della vita» (Baudelaire) che meglio di ogni altra definizione si attaglia alla più genuina espressione artistica di Renoir. C’è poi la svolta del «dramma gaio» La règie du jeu, affresco grottesco e sfrenato di una società borghese avida, incosciente e crudele: opera troppo anticipatrice per essere compresa subito nel suo metaforico messaggio. Ciò che segue è l’occupazione tedesca della Francia, il riparo a Hollywood, la difficile presa di contatto con una realtà tanto diversa da quella fino allora vissuta. Fu un’assimilazione graduale rispecchiata da film (Questa terra è mia, L’uomo del Sud) che risentivano di un umile avvicinamento a differenti canoni di realismo letterario, con particolare riguardo a Steinbeck. Ma si faceva anche strada una nuova visione del mondo, in una prospettiva più universale e con apporti spirituali (Il fiume) alquanto sorprendenti. Ma si faceva anche strada, specie col ritorno di Renoir in patria, il gusto per lo spettacolo in se stesso, il piacere di fare del cinema reinventandone continuamente la macchina espressiva, unito a un sereno e maturo abbandono ai «capricci» della cultura. Ed è con opere come La carrozza d’oro (divertita rivisitazione della Commedia dell’arte italiana), come Eliana e gli uomini e Picnic alla francese (vaporosi arabeschi giocati sui caratteri di personaggi gustosamente punzecchiati dalla saggia ironia dell’artista) che Renoir ci ha restituito tutta la magia del cinema e dello spettacolo. Un’arte in contraddizione con quei princìpi che caratterizzarono la sua grande stagione realistica, ma coltivata fino all’ultimo con quell’amore per la bellezza che è il traguardo definitivo della maturità d’ogni poeta.