Corriere della Sera, 8 gennaio 1979
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Biografia di Giorgio Colli
Giorgio Colli, Torino 16 gennaio 1917 – San Domenico di Fiesole 6 gennaio 1979
Devo a Giorgio Colli una delle più preziose emozioni da me provate in questi anni. Lo dovevo intervistare in occasione dell’uscita del primo volume de «La sapienza greca». L’appuntamento era fissato in un albergo milanese del centro. Colli non era un personaggio facile: molto schivo, timido, incline al silenzio, quasi protetto da una cultura vastissima. Il gelo iniziale dell’incontro non si sciolse nemmeno quando gli ricordai di aver conosciuto suo padre Giuseppe, per anni direttore generale dell’azienda del Corriere della Sera. Col passare dei minuti, compresi che cosa faceva di Colli un intervistato di rare parole, scandite con un insopprimibile accento piemontese: Colli temeva che io trascinassi il discorso dalla «sapienza greca» al nostro tempo. In quei giorni (era il settembre del ’77), la parola «filosofia» era di moda, come quest’anno il raso, perché in passerella erano saliti i «nuovi filosofi» francesi. Come non bastasse, dai giornali arrivavano quotidianamente gli echi della polemica sul «coraggio degli intellettuali». Perché ho parlato di preziosa emozione? Nell’albergo c’era il solito andirivieni di clienti, dalle strade del centro giungevano rumori e strepiti, ma Colli, a poco a poco, riuscì ad annullare quel fastidioso assedio. Gli promisi di non fare domande sul «mondo d’oggi», come lui lo chiamava con un’intonazione vicina al ribrezzo, e il salone dell’albergo, Milano, le poltrone, il tavolino su cui stavano appoggiate due tazzine di caffè, divennero subito Grecia, l’amata Grecia del settimo, sesto e quinto secolo avanti Cristo. Colli dava, infatti, quest’impressione: che abitasse in quella Grecia e che ne uscisse per poche ore ma già con un profondo senso d’esilio. Il «mondo d’oggi» era per lui una sorta di landa caotica, o un labirinto folle, nel quale altro non era possibile desiderare se non un ritorno immediato ai cieli, ai fiumi e alle montagne nascosti nelle mappe dei miti. È facile applicare la metafora della remota residenza a chiunque esplori sepolte civiltà. Ma Colli era tutto fuorché un esploratore. Mi ripeto: era un vero e proprio abitante di un tempo sul quale siamo soliti operare scavi o consultare biblioteche. Avrebbe risposto volentieri in greco alle mie domande.
Per chiunque abbia frequentato un ginnasio-liceo, la Grecia è spesso la matrigna degli aoristi, o la confusa galassia delle dee rissose e delle ninfe nude. Raramente, di quell’incomparabile civiltà si coglie il senso vitale, l’ebbrezza delle prime, umane «vittorie sui mostri». Colli vi era riuscito, e nel colloquio, oltre che nelle opere, sapeva trasmettere un’affabile e lucida dimestichezza: come se, visto che ci si trovava in un albergo, Orfeo fosse stato raggiungibile con l’ascensore in un qualche misterioso corridoio.
Certamente non è giusto esaurire una cosi alta figura di studioso negli aneddoti di un pomeriggio. Bisogna ricordare l’enorme lavoro, condotto con Mazzino Montinari, intorno alle opere complete di Nietzsche: un lavoro per il quale la critica ha usato giudizi come questi: «un’impresa che onora la nostra cultura», «Nietzsche finalmente sottratto alle interpretazioni leggendarie, ai miti deformanti e tralignanti costruiti sul suo pensiero», «un’edizione che si attendeva da più di mezzo secolo». Ma mi permetto di credere che il meglio di sé, la parte più vera e insondabile della sua personalità, Colli 1’avesse riservata alle ricerche sulla sapienza greca. Egli ne aveva anticipato gli esiti in un libretto del ’75, «La nascita della filosofia». Aveva scritto: «Cosi nasce la filosofia, creatura troppo composita e mediata per racchiudere in sé nuove possibilità di vita ascendente. Le spegne la scrittura, essenziale a questa nascita. E l’emozionalità, a un tempo dialettica e retorica, che ancora vibra in Platone, è destinata a disseccarsi in un breve volgere di tempo... Nel momento stesso in cui la filosofia nasce, noi qui l’abbandoniamo. Ma quello che ci premeva di suggerire è che quanto precede la filosofia, il tronco per cui la tradizione usa il nome di “sapienza” e da cui esce questo virgulto presto intristito, è per noi, remotissimi discendenti – secondo una paradossale inversione dei tempi – più vitale della filosofia stessa». La tesi di Colli era, dunque, che la filosofia è morta nel momento in cui è nata, oppure che essa si è trasformata in un genere letterario. La vera, l’unica filosofia si era mostrata nel mondo dei «sapienti», nell’epoca in cui non c’era, se non eccezionalmente, l’uso della scrittura e il grande individuo (ecco un’abissale diversità rispetto al «mondo d’oggi») non appariva in opposizione con la sua società. «Vede – mi disse Colli il giorno dell’intervista – in questi ultimi secoli il grande individuo è sempre stato fuori da ogni rapporto armonico: o perché precorre i tempi o perché sostiene valori che sono il contrario di quelli sostenuti dalla società». Gli chiesi: ma come ha fatto, se non esiste documentazione scritta, a ricuperare in modo sicuro queste voci disperse di «sapienti»? Rispose: «Raccolgo frammenti, che sono spesso miserandi, o trovo citazioni originali quasi nascoste dentro le opere di autori posteriori». Ebbe una pausa. Capii che stava per confessare la verità nella quale sapeva di essere più compiutamente se stesso: «Ho cercato di far parlare quésti greci col loro linguaggio. Nelle traduzioni non seguo l’uso moderno e tecnico della filosofia. Dico una cosa: se stabiliamo che con Platone e con la scrittura è andato perduto un mondo, è quel mondo, e non altri mondi, che va ricuperato. Sono andato “alle spalle” di questi sapienti. Andare “alle spalle” significa occuparsi degli dèi e dei miti sugli dèi. È di lì che nasce tutto...» Ritrovo quelle parole e mi accade di leggerle come se fossero un involontario testamento. Le infinite ore che Colli ha trascorso in questa immane dedizione ai bianchi fantasmi vaganti nelle strade che furono l’Eden del pensiero umano, si restringono in un rapido necrologio, in un triste ne varietur. Anche se mi sembra un’immagine di solitaria e civile bellezza quella dell’uomo che passa una vita tra frammenti di voci lontanissime, e le decifra, e le rianima.