Corriere della Sera, 10 gennaio 1979
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Biografia di Charles Mingus
Charles Mingus, Nogales (Arizone) 22 aprile 1922 – Cuernavaca (Messico) 5 gennaio 1979.
Passerà alla storia per l’odio, per la rabbia, per il colpo di fucile che sparava in teatro nel bel mezzo di una composizione intitolata Fables of Faubus con la quale irrideva al comportamento razzista del governatore dell’Arkansas; per le parolacce che lanciava contro il pubblico, mentre suonava quella sua musica tragica e minacciosa che era una bandiera per tutti i fratelli di colore, quella sua musica nera, come la chiamava rinnegando il termine di jazz che, diceva, era usato dai bianchi in modo spregiativo
Ma molti di coloro che hanno conosciuto da vicino Charles Mingus, il celebre contrabbassista e compositore afroamericano morto a soli cinquantasei anni, sapranno conservare l’immagine della sua infantile dolcezza, di certi suoi gesti tenerissimi, lui grasso, ansante, sudato, iroso e tuttavia sempre pronto ad allargare le braccia ad un amico e a intenerirsi sui ricordi.
Era nato il 22 aprile del 1922 a Nogales, nell’Arizona, ma era vissuto, fin da bambino, nel ghetto negro di Los Angeles, quel quartiere di Watts che avrebbe poi visto le lotte fra gli uomini della polizia bianca e quelli di Potere nero. Erano tutti musicisti in famiglia cosicché anche a lui era sembrato naturale avvicinarsi ad uno strumento: il trombone prima, poi il violoncello, infine il contrabbasso, quando il jazzista Red Callender, suo primo maestro, gli aveva fatto notare che un negro col violoncello avrebbe fatto poca strada. E il contrabbasso l’aveva studiato con ostinazione, non soltanto in senso jazzistico, dato che per ben cinque anni era stato anche allievo di Herman Reinchager, che suonava nella Filarmonica di Nuova York.
Aveva cominciato negli anni in cui Charlie Parker e Dizzy Gillespie inventavano il bebop e davano al jazz l’aspro sapore della ribellione sociale. Ma pur suonando spesso con loro non aveva mai legato coi boppers. Aveva già una sua strada che l’avrebbe portato a diventare il «ponte fra Parker e Ornette Coleman. cioè fra il bebop e il free-jazz, fra la prima e la seconda rivoluzione della musica afroamericana. Ma anche con i musicisti del free non aveva diviso la sua musica che discendeva, se mai. da Ellington per corposità e colori. Pithecanthropus Erectus è stato il suo primo disco famoso. Ma già aveva pubblicato Haitian Fight Song del quale ha scritto: «Non posso suonarlo nel modo giusto se non penso al pregiudizio, all’odio, alla persecuzione e a quanto tutto ciò sia iniquo». Lo stesso tema del suo libro autobiografico Beneath the Underdog che uscirà presto in Italia, edito da Il Formichiere, col titolo Peggio di un bastardo. Poi erano venute opere più distese come The Black Saint and the Sinner Lady che rimane fra le sue cose più belle o come il tragico eppure tenerissimo Meditations on integration.
Aveva anche smesso di suonare, una volta alla fine degli anni Sessanta, e si era presentato ad un ospedale psichiatrico per essere ricoverato. Ne era uscito poco tempo dopo instupidito dai tranquillanti: un altro uomo. Ma la musica lo aveva di nuovo restituito alla vita. Aveva scritto Sue’s Changes dedicato alla moglie Suzanne Ungaro (dalla quale ha avuto una figlia) e poi, più recentemente, Cumbia & Jazz Fusion e le musiche per il film Todo Modo, utilizzate soltanto per il mercato estero. Ora se n’è andato. Era malato da mesi: dagli USA giungevano notizie discordi, ma gli appassionati italiani lo avevano visto, durante l’ultimo concerto al festival di La Spezia, colmo di musica, come sempre, e tuttavia sfinito. Chi scrive lo ricorderà cosi, affranto eppure soddisfatto per essere riuscito ancora una volta a suonare.
È morto un musicista notevole ma soprattutto un uomo che ha molto sofferto e che ha saputo mutare il dolore in espressione artistica e che, lui inadatto alla vita di ogni giorno, ha insegnato a tutti come vivere e come comportarsi