Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1979  gennaio 06 Sabato calendario

Biografia di Conrad Hilton

Conrad Hilton, San Antonio (New Mexico) 25 dicembre 1887 – Santa Monica (California) 3 gennaio 1979.
La scomparsa di Conrad Hilton (91 anni) ripropone l’aneddotica che accarezza il sogno americano della  felicità: lavoro, successo, soldi. Per  milioni di persone la parola «hilton» vuol dire una bandiera bianca con due «h» incrociate, simbolo di un regno senza confini che appartiene più che alla fantasia alla comodità. Perché bianca, e non affidata all’emotività del colore? «Perché – rispose a suo tempo il  magnate che mise a letto gli americani – il candore sa di bucato. Chi viaggia ha bisogno di lenzuola pulite»
Quando un signore come Hilton,  figlio di un immigrato norvegese e di una maestra tedesca, umili nella loro aggressività se è vero che hanno  preferito gli orizzonti larghi del Nuovo  Messico all’ammucchiata dei ghetti etnici di Nuova York dove tutto sembra più facile ed è non so quanto più difficile; quando questo signore gode di  quell’indefinibile tepore che ha il successo naturalmente sciolto nelle abitudini della gente, spuntano come  margherite filosofi che vogliono codificare il segreto della grande fortuna. Chi offre la ricetta del pionierismo. Chi si  innamora della formula di un capitalismo avanzato. I milioni escono dalle  combinazioni del poker, o dalla intuizione miracolosa del saper garantire la cosa giusta al momento giusto. Questa  «cosa» è una camera, un letto, una doccia, e un rubinetto con l’acqua gelata. Il terzo rubinetto di tutti gli Hilton del mondo.
Nelle inevitabili biografie dell’addio, viste le tante spiegazioni che si  offrono, quale vecchio cliente dei suoi  alberghi, ne tento una anch’io. Gli  alberghi riflettono la cultura e le abitudini degli ospiti che li visitano. Sulla Costa Azzurra, il liberty arricciato, malizioso, ammiccante di hotel-monumento,  testimonia la maestosità di palazzi  perduti di non so quanti principi russi invecchiati intorno a Nizza. Gli  sceicchi di allora pagavano in rubli. Ma è un’epoca che muore. Inutile inseguire il passato, il disegno neo-gotico di tutti gli alberghi d’America travolge nei  debiti architetti e padroni, negli anni della grande crisi che segue (1929) quel giorno nero di Wall Street.
A quei tempi Hilton (raccontano le biografie) è un signore con moglie e tre figli, incerto se comprare una banca o far girare altri affari. Ebbene, questo Llndbergh del letto comodo ha  l’intuizione che rallegrerà tutta la vita.  Indovina l’inquietudine per i viaggi. Mentre i cantori rooseveltiani della piccola America casalinga, parca e  moderatamente laborista, cantano i piaceri del focolare (Walt Disney inventa il  boyscout Topolino), Hilton crede nei  dirigibili Zeppeling ed è convinto che le macchinette del signor Ford  trascineranno il secolo verso un nuovo  nomadismo. Allora inventa un modo di fare gli alberghi: non più simili alle case  perdute, o sognate, o sperate: solo stanze comode, sempre uguali, con  asciugamani, accappatoi, interruttori della  luce identici a quelli che il signore  qualsiasi, in giro per affari, conserva nella memoria delle proprie abitudini
Lo racconteranno anni dopo i  sociologi più attenti. Dal 1940 in poi gli americani sono un popolo di estranei. Cambiano quindici volte città e  trentadue volte casa nella vita, cambiano vicini di giardino, scoprono topografie diverse, sommano problemi  insospettati: per esemplo le ragazze,  sballottate da una parte e dall’altra, tremano all’idea di perdere relazioni stabili. La piccola provincia del Mldwest si agita nella paura del non trovare marito. A questa America in subbuglio, il signor Hilton offre la stella polare, lo stesso albergo: da Denver, Colorado, a  Teheran, a Singapore. Una stanza quadrata, con la finestra in fondo, grande il  tavolino, il campanello per i camerieri che si può schiacciare ad occhi chiusi:  tanto è sempre in quel posto
Una vita cosi è scandita da momenti decisivi, il momento della praticità: dopo la grande guerra, Hilton abita a Cisco, Texas. La febbre del petrolio fa crescere scheletri di pozzi. Chi ha un dollaro lo investe in un giacimento. Deve essere la forza della vocazione, ma Conrad Hilton si fa una domanda che è l’uovo di Colombo: tutti questi signori dove mai andranno a dormire? Ed è cosi che, anziché comprare una banca e diventare socio della Shell, apre alberghi. Una catena che si  allunga. Oggi gli alberghi sono 61, sparsi in 49 paesi: 40 mila persone  appartengono all’impero
Poi viene il momento della fantasia. C’è un albergo, a Chicago, si chiama Stevens Hotel, tremila camere, il più grande del mondo. Un deficit pauroso. Hilton lo compra per dare  un’Immagine e un nome ai soldi che sta  ammucchiando. Indovina, in anni non tanto semplici, la forza dirompente della pubblicità. Subito dopo gli offrono il Plaza, che è il luogo dove lo snobismo nuovaiorchese contende la palma  dell’eleganza al signor Cesar Rltz, cantore svizzero dei riposi di lusso inizio  secolo. Chi è mai questo provinciale che si mette in tasca il mito della città? Il «New York Times» se lo chiede, e un editore furbo propone a Conrad Hilton di scrivere la propria storia. Titolo del libro «L’uomo che compra il Plaza». È il 1949. La prima tiratura ammucchia 7.500 copie. Non un record, ma un numero di volumi rispettabile per  essere la biografia di un uomo d’affari quasi sconosciuto
I volumi stanno già per uscire dai magazzini, quando due righe sui  giornali fanno cascare le braccia  all’editore: il signor Hilton ha comperato il Waldorf Astoria, l’albergo più famoso del mondo. Ecco perché in certe  biblioteche un capitolo frettoloso apre un libro dal titolo diverso. Si chiama «L’uomo che comperò il Waldorf  Asteria».
La mitologia dell’albergatore del  secolo comprende altre storie. I  matrimoni: il primo con un’americana  qualsiasi, il secondo con una ragazza  ungherese di nome Sari Gabor, sorella di Eva Gabor, stellina del music-hall. È il 1942. Hilton veste con il disordine  arruffato dello scapolo anglosassone. Cinque anni dopo, quando firma il  divorzio, esclama con aria provata «Zsa-Zsa è una lampadina sempre accesa:  nessuno riesce mal spegnerla», aveva  mutato faccia. Scarpe, cravatta, giacca, tutto giusto. La vamp ungherese gli ha cambiato gusto. Si raccontano i suoi abbandoni spirituali: sperava di  demolire il comunismo costruendo alberghi a Budapest e Varsavia. Scriveva libri di preghiere (nascosti, con la Bibbia, nel comodino dei suoi alberghi) che in realtà solo firmava: le parole erano di un prete suo amico.
Un tipo cosi di amici ne ha tanti: Eisenhower lo manda a rappresentarlo a Montecarlo quando si sposa Grace Kelly. I duchi di Windsor vanno a caccia con lui. Come succede, i figli cercano l’imitazione: Nlck, il  primogenito (morto qualche anno fa), sposa Elizabeth Taylor, malgrado il padre avesse minacciato di togliergli il  saluto. «Le attrici vivono di vanità. È un sentimento che non può coabitare con gli affari». Di il a un po’ gli dà ragione. L’ho visto una sola volta, tredici anni fa, all’inaugurazione di un Hilton  africano. Harry Belafonte canta per tutta la sera, poi le luci si spengono. C’è solo un riflettore che cerca un vecchio  signore magro e lunghissimo. Il quale prende per mano Kim Novak e  comincia a ballare un valzer che si chiama «Varsovlana». Per primo lo ha fatto suonare in America Massimiliano d’Austria, malinconico imperatore del Messico. Se a lui ha portato male, ad Hilton ha portato bene 61 volte, ogni volta che ha ballato in un nuovo  albergo. Almeno cosi raccontano leggende puntuali, distribuite dagli uffici  stampa, facendo scivolare la storia di  Hilton dal mondo degli affari alla  mitologia di Hollywood
Maurizio Chierici