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 2017  aprile 16 Domenica calendario

L’intelligenza delle piante

Che cosa si proverebbe ad essere una pianta? Impossibile rispondere per noi animali. Tuttavia, avendoci dotato l’evoluzione di una certa fantasia, possiamo immaginare come ci si senta a non potersi spostare da dove si è nati, anzi germogliati. Bisogna immedesimarsi nella vita di un organismo che non ha occhi né orecchie, non ha un sistema nervoso centrale, niente neuroni né muscoli. Il suo modello di esistenza è dunque alternativo al nostro ed è tutto basato sulla comunicazione chimica, su sensibilità multipla e reattività (alla luce, al contatto, all’umidità, all’ossigeno, ai campi elettrici, alla gravità e anche alle vibrazioni sonore), su movimenti a bassissimo costo energetico, su una struttura corporea modulare fatta di colonie di unità replicate, nonché su un formidabile apparato interconnesso di radici che esplorano il terreno. Dentro l’apparente immobilità di un vegetale, a ben guardare succede di tutto.
In conseguenza di ciò, le piante rappresentano un esempio di ingegnosità adattativa al quale dovremmo, per quanto possibile, ispirarci. Da 475 milioni di anni almeno, questi ponti tra terra e cielo sperimentano efficaci strategie evolutive per difendersi, mimetizzarsi, comunicare, scambiarsi segnali di pericolo, competere, proteggersi dagli stress, aprirsi la strada in nuovi habitat e resistere anche in ambienti estremi. Puntano tutto sulla biosintesi dei composti di cui hanno bisogno e sulla plasticità, grazie anche alle capacità di regolazione e di memoria epigenetica. Gli animali non sopravvivono all’asportazione di una parte consistente del loro corpo, le piante sì. La strategia del successo vegetale (l’80% della biomassa terrestre è costituita da piante) è data da opportunismo ed economicità: ridurre al minimo i costi per garantire la sopravvivenza, per esempio convertendo per nuove funzioni strutture che si erano evolute per altre ragioni.
Dalle interazioni tra le circa 400 mila specie di piante conosciute e l’ambiente un mammifero autodefinitosi sapiens dovrebbe dunque trarre preziose lezioni. Le piante sono sintetizzatori di cocktail di sostanze che diventano farmaci per gli umani e magazzino di innumerevoli applicazioni (eccitanti, calmanti, coloranti, profumi, cosmetici, insetticidi). Sono sentinelle attente dei guasti umani, nonché bio-accumulatori che ci liberano da inquinanti per noi letali. I plantoidi, loro copia biorobotica, sono macchine che mimano i movimenti sapienti delle radici e promettono impieghi nell’esplorazione dei suoli (terrestri e non solo) e nel monitoraggio ambientale. Stefano Mancuso in Plant Revolution (Giunti) descrive appassionatamente questo auspicabile e ineludibile futuro bio-sostenibile a base di tecnologie vegetali avveniristiche che potranno aiutarci in settori come l’energia, la sicurezza alimentare, la scienza dei materiali, le esplorazioni spaziali. Abbiamo tantissimo da imparare dalle strategie intelligenti delle piante.
Sulla «intelligenza delle piante» i botanici baruffano da tempo, ma le loro incomprensioni sembrano più che altro terminologiche. Charles Darwin ha dedicato più libri alle piante che a ogni altro argomento e passava buona parte delle sue giornate sperimentando dentro una serra, come poi farà suo figlio Francis, fisiologo vegetale. Una rilettura di quanto scrivevano i Darwin potrebbe rimettere tutti d’accordo: ci sono infiniti modi di essere «intelligenti» al mondo, cioè di interagire con l’ambiente, di comunicare, di risolvere problemi, adattarsi, sopravvivere e riprodursi. In questa accezione evoluzionistica estesa rientra a pieno titolo l’intelligenza delle piante, che è decentrata e distribuita in tutto il loro corpo, particolarmente nelle radici (le quali, secondo Mancuso, si comportano come un organismo collettivo).
Il rischio è semmai quello di eccedere nel tessere le lodi di ciò che è così radicalmente diverso da noi, rimanendo però necessariamente ingabbiati dentro un filtro percettivo umano. Il paradosso naturalistico in cui ci troviamo tutti noi, compreso Mancuso, è infatti quello di saper apprezzare scientificamente l’intelligenza di una pianta, ma di poterla poi descrivere metaforicamente soltanto attraverso un linguaggio animalo-centrico: così diciamo che le piante «pensano», «ricordano», «parlano», hanno una «mente»; oppure sogniamo edificanti società vegetali, fittamente interconnesse, pacifiche ed evolute, come quella che sul pianeta Pandora del film Avatar smaschera tutta la nostra cattiva coscienza di mammiferi depredatori.
Al di là delle parole che usiamo per dirlo, la sostanza è che relazioni di ogni tipo – collaborative, competitive, manipolatorie, mutualistiche, simbiotiche – legano tra loro piante e parassiti, piante e funghi, funghi e alghe, piante e batteri, piante e insetti, piante ed erbivori, piante e stress ambientali, e chiaramente anche piante e umani. La perenne sfida evolutiva tra piante e insetti impollinatori ha prodotto coadattamenti sorprendenti, inganni reciproci, complesse alleanze tra le piante e i predatori dei loro parassiti (in base al principio secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico).
Le piante, lungi dall’essere organismi passivi, sono al centro delle intricate relazioni tra tutti i composti chimici fondamentali per la vita. Lo aveva capito bene Primo Levi: ne Il sistema periodico (1975) racconta di quando un anonimo atomo di carbonio, figlio di una lunghissima storia cosmica, «ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di esservi inchiodato da un raggio di luce». Da allora si rinnova il prodigio biochimico della fotosintesi, «fulmineo lavoro a tre, dell’anidride carbonica, della luce e del verde vegetale», la stretta porta che mediamente ogni 200 anni fa entrare e rientrare ogni atomo di carbonio presente in atmosfera nel grande ciclo della vita. Il tutto grazie alle «nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimentano e non discutono», ma da cui la nostra intera vita dipende.
Una dozzina di millenni fa, o forse più, Homo sapiens addomesticò alcune piante per i propri fini, anche se già i Neanderthal avevano imparato a selezionarle non solo per scopi alimentari, ma anche di automedicazione. Ci siamo così convinti di dominarle per mezzo di incroci mirati e selezione artificiale. In realtà, evolutivamente parlando, sono loro ad aver addomesticato noi, usandoci come impareggiabile veicolo di diffusione e impregnando ogni aspetto delle nostre nicchie eco-culturali, dato che con le piante noi ci nutriamo, scriviamo, ci vestiamo, costruiamo abitazioni e mezzi di trasporto, ci abbelliamo, ci coloriamo, ci droghiamo, ci avveleniamo e curiamo. Ciò nonostante, le piante avranno di che temerci in futuro, visto che la deforestazione, la diffusione di specie invasive, il sovrappopolamento urbano e l’inquinamento stanno generando un’estinzione di massa della biodiversità (anche vegetale) senza precedenti. Il nostro destino dipenderà anche dalle capacità di resistenza delle piante a questa combinazione inedita di stress antropici.
Queste nostre «sorelle silenziose», troppo a lungo sottovalutate eppure così moderne, in un altro racconto di Primo Levi (I l fabbro di sé stesso ) sono definite così: «Sembrano stupide, eppure rubano l’energia al sole, il carbonio all’aria, i sali alla terra, e crescono per mille anni senza filare né tessere né scannarsi a vicenda come noi».