Corriere della Sera, 30 aprile 1979
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Ritratto di Lucio Mastronardi, lo scrittore che non riuscì mai a farsi amica la vita
Quando, nel novembre del 1974, aveva già tentato il suicidio buttandosi dal quinto piano (lo aveva salvato la capote di un’auto), si scrisse che la vera pena di Lucio Mastronardi era quella di non riuscire a fare amicizia con la vita. Tre mesi dopo fu in grado di lasciare l’ospedale. Qualcuno gli domandò che cosa avesse pensato in quei pochi attimi. «Nulla – rispose —. Ho aspettato che si spegnesse l’ultimo balcone e mi sono lanciato. Ricordo solo la sensazione del volo e la voglia di gridare. Quando si precipita viene voglia di gridare. Io non ho gridato, è stata la mia vittoria». Poi aggiunse: «Mi sono fatto però un’idea della morte. È come il primo amore: mezza illusione e mezza delusione».
Il destino di Mastronardi, che era nato a Vigevano nel 1930, si è consumato tra cronaca e letteratura. Nel 1962 lo arrestarono perché aveva oltraggiato il controllore d’un treno. Dieci anni dopo, nell’autunno del 1972, conobbe ancora il carcere perché aveva ingiuriato, lui maestro elementare, il suo direttore didattico. La nevrosi lo insidiava da sempre, lo spingeva a comportarsi talvolta come se le convenzioni del mondo non esistessero. Un giorno, si mise a distribuire i soldi del magro stipendio ai passeggeri in attesa sotto la pensilina della stazione. Giurava di non ricordare l’episodio: «Mi sembra strano: sono un tipo avaro». Non era che volesse seppellire certi tristi momenti. Con gli amici riusciva a parlarne con la ritrosia di chi si decide a mostrare una segreta pagina di diario. Quando però sembrava avvicinarsi l’attimo dello strazio, la verità che può dare il nodo alla gola, Mastronardi si liberava da se stesso e dagli altri rifugiandosi nel grottesco. L’ho sentito raccontare questo aneddoto. Uscito dal carcere, incontrò un «industrialotto» della sua Vigevano. «Eccolo qua – gli disse il concittadino – eccolo qua il nostro scrittore, il poeta. Lasciatelo dire: sei proprio in gamba. Una cosetta da niente, un momento di nervoso, quattro insulti, e tutti i giornali d’Italia ne hanno parlato. Io, per far parlare un poco delle scarpe che fabbrico, devo spendere milioni».
L’episodio spiegava in fondo, la misura dell’immensa solitudine di Mastronardi. Alla soglia dei trent’anni, nel 1959, il suo primo libro, Il calzolaio di Vigevano, fu salutato come la prova di uno scrittore assolutamente nuovo. La scoperta di Mastronardi era dovuta a Elio Vittorini. Di lui, sorprese soprattutto il linguaggio, a mezza strada fra dialetto e italiano, colmo di trascrizioni foniche, a volte drammatico, a volte clownesco. Ma il vero senso di quelle pagine era un altro. E quanti, a Vigevano e dintorni, si identificarono nello spirito di certi personaggi, gridarono allo scandalo. Mastronardi fu il primo narratore a rovesciare il coperchio del «miracolo economico», ad andare fin dentro le pieghe meno visibili di quel controverso momento della vita italiana. La sua Vigevano era l’allegoria di un mondo che, in taluni strati sociali, sembrava non avere altri valori all’infuori della frenetica produzione e dell’altrettanto frenetico guadagno. Quei calzolai, simili a indaffarati castori, costruivano una realtà ambigua, un prodigio dalle fondamenta fragilissime. La trionfante alba del consumismo italiano era racchiusa lì, in quelle pagine plebee, irte di vocaboli come «giuntora», «guardoli», «orlora». «scarnitrice», in quel brulicante emporio di tomaie. Dietro lo schermo dell’attivismo insonne, già trapelava il vuoto di fondo, la triste lacerazione dell’egoismo. Eppure, anche se lo trattava con una ferocia imparata leggendo Swift, Mastronardi non riuscì mai a staccarsi dal suo mondo, né come uomo, né come scrittore. Al Calzolaio di Vigevano seguirono II maestro di Vigevano, Il meridionale di Vigevano (poi raccolti in un unico volume, Gente di Vigevano), la Ballata del vecchio calzolaio, A casa tua ridono, L’assicuratore. Vigevano era così diventata più che una città geograficamente individuabile in Lombardia, un luogo negativo senza altra lussuria che quella del denaro e dell’invidia, un immobile inferno con la condanna di uno strano contrappasso: mettere insieme scarpe su scarpe, simbolo di strade e di viaggi, e restare prigionieri della colla e del cuoio, fermi, incapaci d’evasione e di fuga. Da qualche tempo si sapeva che Mastronardi era gravemente ammalato. Senza voler fare pericolose confusioni fra vita e letteratura, la sua fine riporta alla memoria il protagonista di A casa tua ridono: uno che si ritiene fallito e bastonato dall’esistenza, e decide di buttarsi nel fiume. Nel romanzo, il personaggio è salvato. Per Mastronardi, invece, non resta che la salvezza di un’amichevole memoria per la sua integrità intellettuale, per la protesta che era implicita nella sintassi rotta e angosciosa delle sue pagine. Anche se, nella distanza, preferisco rivederlo una domenica mattina di anni fa, nella mirabile piazza di Vigevano, di cui illustrava la bellezza e la storia come un cicerone. C’era il sole. Seduti a un tavolino, prendemmo un caffè. Lui era in vena di sorrisi e di arguti ricordi: «Sai, a San Vittore sono stato in cella con un sarto e un barbiere. Mi avevano visto alla televisione e mi trattavano come un divo. Facevano il caffé anche cinque o sei volte al giorno. Così buono non l’ho mai bevuto».