la Repubblica, 12 marzo 2017
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Corea del Sud. La rivolta delle candele: «Così in sei mesi abbiamo cacciato Park»
SEUL Il nome vero non lo può dare ma quando una ragazza gli porta lì in strada il Frappuccino perché, va bene tutto, mica stacchi dal servizio per andare da Starbucks, l’agente che chiameremo Lee sorride e comincia anche lui a dondolare al ritmo di Goodbye, l’inno rap di MC Sniper e Park Gwan-sun: ciao ciao presidente Park Geun-hye.
Sì, vale davvero la pena districarsi in questa giungla di nomi difficili da pronunciare per balbettare una semplice verità: stasera, qui, sta andando in scena una rivoluzione, e pazienza se domani scopriremo che arriva l’ennesima restaurazione. I ragazzi di tutte l’età alle 7 della tarde lasciano piazza Gwanghwamun per allungarsi per chilometri nell’ultimo, grande, pacifico corteo di questa primavera delle fiaccole. È un rito che aspettando la deposizione della Corte Costituzionale si ripete da sei mesi, ogni benedetto sabato, con il sole, la pioggia e perfino la neve, 2 milioni e 300 mila persone nella notte più lunga. Ed è qui che capisci che il muro che separa le due Coree stavolta corre tutto a sud del 38esimo parallelo. Di qua la festa degli anti Park, di là la folla dei suoi supporter che consuma con rabbia la sconfitta che non vuole accettare, proprio come la presidente sfrattata dalla Corte Costituzionale ma ancora rintanata nella stessa Blue House dove abitò con il padre dittatore – residente così abusiva che il Labor Party, un partitino di qui, si chiede se non debba essere indagata per “occupazione indebita di proprietà”. Una casa ce l’ha, e pure bella grande, laggiù a Samseong, una fermata di metrò da quella Gangnam che il rapper Psy ha reso famosa in tutto il mondo come il regno dei Supercafoni: perché non smamma?
La cover di We are the champions apre l’ultimo dei rally e copre nella piazza accanto gli inni dei nostalgici: quelli che quando c’era non diciamo lui, Park Chung-hee, ma almeno lei, Park Geun-hye, la figlia del dittatore. «Italia?» ti fa Jeung In Shik, avvolto nella bandiera nazionale con la foto della sua presidente stampata su. «Allora ci capiamo. Noi non abbiamo mai voluto i comunisti: vero?». Il signor Jeung In Shik: uno per cui la guerra non è mai finita. Eppure i vecchietti pro Park che marciano sollevando la bandiera coreana insieme a quella americana stanno pagando con la vita l’attaccamento al passato. I morti degli scontri sono diventati già tre e qualcosa dirà pure l’età delle vittime: 74, 72 e 66 anni. Chissà quale inchiesta avrà il coraggio di indagare sulle responsabilità anche della polizia che pure sta facendo l’impossibile per evitare il peggio: ieri ha diviso con un muro di decine di pullman e migliaia di agenti le due piazze dove hanno manifestato pro e anti Park. Kim Jung-hoon, il capo, ha dovuto tenere una conferenza stampa per denunciare le aggressioni ai giornalisti: i nostalgici se la prendono anche con le inchieste dei cronisti per giustificare la caduta della presidente che con l’amica sciamana, dice la procura, aveva organizzato un giro di mazzette da decine di milioni di dollari, Samsung compresa.
«Sono veramente due Coree» spiega a Repubblica Michael Hurt, professore di sociologia alla Hankuk University di qui. «Puoi tirare una linea che divide gli over e gli under 50. La vecchia generazione è quella che ha conosciuto la guerra, la povertà, ha visto questo paese sottosviluppato diventare una potenza grazie al padre dittatore della presidente: e gli perdonano corte marziale e corruzione». E i più giovani? «Hanno obbedito ai genitori come richiesto da questo tipo di società, hanno studiato sodo come richiesto da questo tipo di società, erano pronti anche a lavorare sodo come richiesto da questo tipo di società: ma il lavoro non l’hanno più trovato». Lo scandalo della sciamana, alla fine, è stata la miccia della bomba che aspettava di esplodere: non sarà un caso se proprio ieri Moody’s ha certificato che “l’allontanamento di Park rimuove l’incertezza politica” e permetterà “di concentrarsi sulle riforme che rispondano ai cambiamenti strutturali”. Il nuovo presidente sarà quel Moon Jae-in che in un’intervista al New York Times ora dice che «i coreani devono imparare a dire no agli americani». E accusa Donald Trump di aver cominciato a costruire quaggiù il discusso scudo anti-Corea del Nord per metterlo di fronte al fatto compiuto. Del resto è anche la percezione del pericolo Kim a separare le due Coree che si dividono sotto il 38° parallelo. Nei cortei pro Park trovi sempre chi stramaledice il regno dell’orrore di lassù. «E per loro si vivrebbe in uno stato di emergenza permanente» nota Hurt. «I più giovani se ne sono fatti una ragione. Ok, c’è quello zio pazzerello che ogni tanto dà in escandescenze: ma voi come vi regolereste con uno zio pazzerello?».
E voi come vi regolereste con un migliaio di missili puntati contro? Dopo aver dedicato per mesi paginoni alle vergogne del caso Park, ovviamente per dimostrare le nefandezze dell’altra Corea, ieri il Rodong Sinmun, il giornale di lassù, ha dato notizia della sua cacciata solo con una breve in cronaca: nulla è cambiato per i gerarchi sopra al 38esimo parallelo, dove proprio in queste ore è stata notata l’ennesima, frenetica attività attorno a un sito di test nucleari. E dunque nunc est bibendum eccetera eccetera: si goda pure in pace il suo Frappuccino l’agente Lee. La guerra stasera può attendere. Ma per quanto?