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 2017  marzo 09 Giovedì calendario

Dai divieti allo sponsor. Le ragazze velate non sono più pioniere

Lo sponsor ci ha messo il baffo, ma sono le atlete che hanno creato il mercato. Se sono state così brave da spingere un marchio importante a fare ricerca e investire 13 mesi nei test di uno hijab per lo sport, significa che non stanno più in un angolo: fanno statistica, si vedono, esistono.
La Nike ha lanciato lo hijab-pro, studiato sulle esigenze di chi vuole rispettare la propria cultura ma pure allenarsi. Tessuti traspiranti, micro fori, materiali leggeri, proprio come una maglia, come una scarpa, come qualsiasi altro dettaglio dell’attrezzatura.
Cambio di prospettiva
Non sono i primi a creare un modello che si adatti alla competizione, ma il loro spot, con testimonianze di ragazze arabe, di certo è la prova che non c’è più nulla di strano nell’avere un velo al blocco di partenza. Non è più un marchio di differenza proprio perché è marchiato come tutto il resto.
Fino a qualche anno fa lo sport non tollerava il capo coperto nelle competizioni ufficiali e alle donne che si presentavano in campo così veniva posta una scelta assurda: o rinunci alle tue convinzioni o perdi a tavolino. Se ne andavano via ogni volta. Però tornavano, sempre più determinate.
Le musulmane non sono certo rimaste ad aspettare la Nike, prima hanno inventato hijab più stabili con il fai da te, poi si sono appoggiate a pionieri che hanno dato una bella spinta alla discriminazione. La compagnia canadese ResportOn, nel 2014, ha creato un prototipo che di fatto ha cambiato il regolamento della Fifa e concesso alle calciatrici velate di giocare. L’anno scorso la nazionale dell’Afghanistan ha presentato le divise con tanto di velo performante. Ci sono anche piccole attività che hanno raccolto fondi per modelli da usare come poster. Un movimento che è arrivato fino alle Olimpiadi di Rio. La spadista Ibtihaj Muhammad ha vinto una medaglia con uno hijab che ha disegnato da sola. E l’egiziana del beach volley, Doaa Elghobashy, ha fatto il giro del mondo con la sua tuta integrale portata con disinvoltura davanti ai bikini da gara.
Nel basket resta il divieto
A fine febbraio la modella Halima Aden ha sfilato sulle passerelle di Milano con il capo velato griffato Alberta Ferretti. Ha raccontato che da piccola non aveva idea che si potesse fare quel lavoro con lo hijab. Le stesse parole usate nel video promozionale della Nike da Zahra Lari, pattinatrice decisa ad andare ai Giochi di PyeongChang l’anno prossimo. Donne commosse non dalla trovata commerciale, ma dalla consapevolezza che dare un nome al velo, vederlo nell’alta moda o nello sport olimpico significa essere arrivate a mischiarsi. Poi ci sarà la strada per uscire dalla massa ed eccellere, ma quella vale per tutti.
Certi pregiudizi reggono ancora, il basket non ha ufficialmente accettato lo hijab. La Nike è sponsor tecnico della federazione internazionale, cioè fornisce divise, palloni, ora pure hijab. Chissà che non voglia fare pressioni per vederli indossati.