Affari&Finanza, 12 dicembre 2016
Il lusso e i guai dell’e-commerce. Le griffe temono una maxi-multa
Proprio ora che la crescita delle aziende del lusso è trainata dalle vetrine online, l’Antritrust europeo svolge un’indagine a tappeto tra i maggiori marchi e rileva “gravi irregolarità” sui contratti di distribuzione che limitano il commercio elettronico. Da quando a capo della commissione che vigila sulla concorrenza c’è il commissario di ferro Margrethe Vestager, le griffe corrono ai ripari per evitare multe salatissime, che potrebbero arrivare fino 10% del fatturato del marchio ritenuto responsabile di violazione alle regole Ue. Per costruire un mercato unico digitale, nel maggio 2015 l’Antitrust ha iniziato a indagare sulle intese verticali, vale a dire quelle che regolano i rapporti di tutta la filiera di un brand.
Tutto quello che intercorre dalla produzione fino all’ultimo dettagliante. Le norme relative sono quelle recepite nella legge 130/1 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 19 maggio 2010. Il sospetto non è che ci sia un cartello tra i vari marchi sul prezzo delle borse (le così dette intese orizzontali), ma che ce ne sia uno tra azienda e rivenditori, per tenere il prezzo della merce su livelli alti. Il concetto è declinato su tutti i prodotti, dall’alimentare alle auto, dagli elettrodomestici all’abbigliamento. Solo che la forbice tra prezzo al pubblico e al rivenditore wholesale, in generale, si allarga di più quando l’oggetto da produrre e vendere sono i beni di alta gamma.
Un’industria intangibile. Non è un mistero che le aziende del lusso abbiano investito tantissimo sull’intangibile – dall’esperienza di entrare in un bel negozio e fare shopping, alla comunicazione, ai servizi post- vendita e così via – e questo a loro dire giustifica anche un prezzo di lusso per articoli che per definizione puntano a essere esclusivi, e quindi appannaggio di pochi anche nel costo. Pertanto quello che per legge è un “prezzo suggerito”, nel mondo del lusso è diventato un prezzo minimo che nei fatti è imposto. Secondo l’indagine Ue il 38% dei produttori raccomanda il prezzo e meno del 10% fornisce dettagli su promozioni e sconti da applicare al prezzo minimo on e offline. Ma per l’Antitrust questi accordi verticali, che limitano la politica di prezzi o la possibilità di vendere la merce acquistata dai brand online, è di fatto una violazione dei principi europei del libero scambio e della libera circolazione dei beni. I siti internet permettono infatti al consumatore che ha visto la borsa di un determinato marchio di cercarla sui motori di ricerca e di comprarla dal negozio online che offre il prezzo o le condizioni di vendita migliori. Ma se è possibile cercare e paragonare i prezzi di un frigorifero, per una scarpa o una giacca l’esercizio diventa più complicato. Tanto più che nel 60% dei casi analizzati dall’antitrust europeo, quando il consumatore prova a fare la ricerca, spesso viene rispedito sul sito web dell’azienda che produce quel determinato bene, piuttosto che sulla pagina nella lingua madre da dove è partita la richiesta (che in gergo si chiama geoblocco, ovvero la limitazione di esplorare le varie offerte da parte di altri siti europei).
Geoblocco. In realtà secondo l’European Cultural and Creative Industries Alliance (Eccia) che riunisce le associazioni di alta gamma di Spagna, Francia, Germania e l’italiana Altagamma, le aziende del lusso e i loro siti non utilizzano il geoblocco, dato che i grandi marchi in genere si avvalgono di domini.com, a cui ci si può collegare ovunque ti rovi nel mondo. Fatto sta che se su alcune categorie merceologiche o su alcuni servizi i motori di ricerca e i siti dedicati offrono già un’ampia scelta di offerta e prezzi, per i beni di lusso quest’esercizio è molto difficile, e non solo per l’unicità del brand e del prodotto.
Viceversa, in molti altri casi, come per esempio proprio il comparto dei prodotti tecnologici, il geoblocco impedisce al consumatore di comprare lo stesso smartphone, al prezzo più conveniente, anche perché a quel punto esiste un problema ulteriore, che è quello dell’Iva, che in ogni Stato Ue ha un’aliquota diversa.
In altri casi invece, come per gli elettrodomestici, dato che il costo del trasporto incide in maniera consistente sul prezzo, a prescindere dalle politiche di geoblocco, comprare un frigorifero in Portogallo per usarlo in Germania sarà comunque poco conveniente per colpa dei costi di trasporto.
Distribuzione selettiva. Sempre stando all’analisi della Ue, il 12% dei rivenditori subisce restrizioni contrattuali alla vendita transfrontaliera in almeno una categoria di prodotto. Nonostante tali restrizioni siano perlopiù previste a livello contrattuale, accade spesso anche che vengano comunicate solo oralmente (onde eludere la normativa).
Oltre a limitare la vendita fisica dei prodotti, circa un distributore su 5 (il 18% di quelli analizzati) si è visto vietare la possibilità di rivendere gli stessi online. Senza contare che la Ue ha riscontrato che le limitazioni a vendere sui marketplace sono maggiori dove l’uso del web per lo shopping è più diffuso come in Francia e Germania, soprattutto su articoli per lo sport e il tempo libero (14%), abbigliamento e scarpe (12%) ed elettronica (12%).
Peraltro la maggior parte delle aziende del lusso utilizza un modello di distribuzione selettiva, che impone al dettagliante, che sia on o off line, di avere tutta una serie di criteri di qualità, esclusività, eleganza e servizio, prima di poter far parte del network distributivo del brand. E così i marchi che scelgono una distribuzione selettiva non sono presenti su siti di e-commerce generalisti come ad esempio Amazon. Tuttavia ci sono anche marchi che scelgono un modello di distribuzione aperta (in Italia solo Moncler), ovvero che scelgono uno per uno i loro distributori, che però a loro volta possono poi “rivendere” a terzi la merce acquistata: in questo caso il rischio di finire su Amazon c’è.
Secondo la Eccia invece, proprio gli investimenti sulle piattaforme digitali, sui nuovi contenuti e sui sistemi di pagamento sono quelli che hanno fatto crescere la fiducia nei consumatori di Altagamma ad acquistare online (a prescindere dal problema dei falsi che su Internet dilaga più che sul canale fisico). Fatto sta che proprio grazie agli investimenti delle aziende di lusso anche sul digitale, l’e-commerce di alta gamma è cresciuto dal 6% nel 2014 e secondo le previsioni di McKinsey dovrebbe raddoppiare al 12% nel 2020, per arrivare al 18% al 2025.
Le sentenze. A metà settembre si è conclusa l’analisi dell’Antitrust su 1.800 società e 8.000 distributori che a marzo si tradurrà in una serie di provvedimenti ad hoc sulle singole aziende, dato che sono state rilevate “violazioni, pratiche restrittive o situazioni di abuso della posizione dominate” che potrebbero condurre a pesanti sanzioni.
“Eravamo preoccupati per la situazione prima della partenza dell’indagine Ue – spiega Armando Branchini, vice presidente di Altagamma – ma dopo la prima ricognizione ci sembra che l’antitrust abbia condotto un’analisi corretta. Ci auguriamo che anche la normativa che ne discenderà dopo questa analisi approfondita tenga conto delle particolarità del mercato di alta gamma”.
La Eccia fa infatti notare che l’industria dei beni di lusso è da sempre e tipicamente un’industria europea, che cresce e crea occupazione. Con 547 miliardi di fatturato aggregato, i beni di lusso di griffe come Louis Vuitton, Chanel, Hermes, Gucci, Prada – solo per citarne alcuni – rappresentano il 4% del Pil europeo. L’alto di gamma, solo nel Vecchio Continente, dà inoltre lavoro a 1,7 milioni di persone, e continua a creare posti di lavoro: tra il 2010 e il 2013, in un contesto di rallentamento economico, il lusso ha creato 200.000 posti di lavoro.