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 2016  dicembre 15 Giovedì calendario

Finale di Davis, 1976 la versione di Fillol: «Non giocavamo in onore di Pinochet»

“Ma che facciamo? Andiamo da quel fascista e gli diciam: Señor hasta la vista e poi prendendo in mano la racchetta dimentichiamo tutto così in fretta”. In questa canzone di Domenico Modugno c’è tutto. C’è l’Italia del 1976 in ebollizione per l’imminente e “mostruosa” finale di Coppa Davis a Santiago contro il Cile del sanguinario dittatore Pinochet. C’è mezzo Paese, soprattutto il Pci e la sinistra, contro quelli che qualcuno chiama i “fascisti” Nicola Pietrangeli, Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, “colpevoli” di voler giocare nonostante l’Unione Sovietica in semifinale avesse già boicottato i sudamericani, scatenando un caso mondiale. C’è il memento di Jaime Fillol, oggi 70 anni, allora primo tennista cileno, che fece illudere Pinochet e i connazionali con quel 4-0 al primo set contro Barazzutti, nel match d’esordio. «Noi tennisti non parliamo mai tra noi delle partite del passato, figuriamoci di quella. Forse siamo troppo orgogliosi per essere nostalgici».
Fillol ci accoglie nel suo nuovo campo, e cioè il campus dell’Università nazionale (privata) Andrés Bello di Santiago. Siamo nella ricca e verde periferia di Las Condes della capitale Santiago, ai piedi delle Ande. Oggi Fillol è direttore dei corsi di educazione fisica, veste coloniale e ha un ufficio molto semplice, con pochi libri e pochi trofei. Quella Coppa Davis persa per 4-1 nel dicembre di quarant’anni fa poteva essere la più grande soddisfazione della sua carriera. Gli è rimasta solo una magnifica illusione. «Ricordo il mio buon inizio contro Corrado. Poi niente, soltanto la sconfitta», zufola con un filo di voce. Ma forse la sua amnesia è solo un lato del destino. La Rai decise di non trasmettere la finale per il timore di «dare una falsa idea del Cile, quella cioè di un paese felice e in festa». La tv di stato cilena ha perso quasi tutto il materiale d’archivio in un incendio. Restano soltanto filmati di pochi minuti di quella finale “vergognosa”. Non ricorderemo più i giorni, ma gli attimi, direbbe Pavese.Però a Fillol quella sconfitta ancora fa male. Tanto. «Facemmo un errore, ci allenammo troppo», spiega. «Per noi era la partita della vita. Ma ci arrivammo stanchi, logori. Gli italiani erano paradossalmente più rilassati di noi, nonostante quello che succedeva a Roma, che noi ignoravamo. Certo, sapevamo che erano più forti. Ma giocavamo in casa e quindi dovevamo vincere». Anche per Pinochet? «No, per noi e per il popolo. Il “‘Generale”’ non venne alle partite e non si fece neanche vedere agli allenamenti. Non ci furono pressioni politiche, almeno su di noi». E quelle magliette rosse di Panatta e Bertolucci nel doppio? «Ma io neanche ci feci caso in campo. Cosa significavano?». Insomma, non tutti in Cile capirono quell’affronto cromatico di Adriano Panatta nel campo centrale a pochi metri dall’Estadio Nacional, tre anni prima lager dei militari dove 40mila persone furono imprigionate, uccise o torturate.
È ingiusta la semiotica della storia. Eppure Pinochet odiava la cravatta scarlatta del calciatore ribelle cileno Caszely, che gliela mostrò tronfio. Caszely era compagno di nazionale del capitano Francisco Valdés, che il 21 novembre 1973 fu costretto a segnare a porta vuota contro i fantasmi dell’Urss, che anche allora boicottarono i cileni nello spareggio per le qualificazioni del Mondiale in Germania Ovest. Valdés, dopo quel “gol della vergogna”, corse negli spogliatoi e vomitò. Fillol ci pensa un attimo. «No, non avrei fatto lo stesso. Non avrei mai fatto la pagliacciata di un ace in un campo vuoto. Anche se quella Coppa sarebbe stata tutta la mia carriera». Come il film di Larraín tratto dal romanzo di Skármeta sul plebiscito che cancellò Pinochet, il coraggio si chiama anche “No”.