la Repubblica, 15 dicembre 2016
Grazie a Dio è «Venerdì» la festa per il numero 1500 di un magazine rivoluzionario
Non è che Il Venerdì piacesse a tutti come nome del nuovo magazine di Repubblica, che oggi è arrivato al numero 1500. Prima obiezione (senza contare quelle scaramantiche, che c’erano, c’erano): non era imprudente legarci irrevocabilmente al venerdì, mentre gli altri settimanali cambiavano giorno di uscita in base ai mutamenti dello scenario editoriale e ad altre imperscrutabili leggi del marketing? Seconda obiezione: se saltava un numero, i maligni avrebbero detto che ci mancava un venerdì? Poco lusinghiero. Per tacitare le nostre perplessità ci fu portato l’esempio dell’Evenement du jeudi, che usciva da tre anni in Francia con un certo successo. Per dire: c’era anche Il Sabato di Comunione e Liberazione, ma non venne preso in considerazione. E il 16 ottobre 1987 uscì il primo numero del Venerdì. Di venerdì, appunto.
In copertina, un Marcello Mastroianni biancovestito faceva una sorta di inchino sulla spiaggia, poteva sembrare un benvenuto ai lettori. Sulla quella prima copertina si era dibattuto parecchio. Franco Lefevre, storico rabdomante di fotografie prima all’Espresso e poi a Panorama era rientrato nel gruppo e aveva lavorato a lungo sull’immagine di una deliziosa bimbetta di pochi mesi che doveva dare l’idea di una nuova creatura editoriale. Era molto accattivante, forse troppo. Meglio il fascino, seppure attempato, di Mastroianni. Quelli erano tempi ancora felici per la stampa, e i magazine del Corriere e di Repubblica, praticamente coetanei, servivano per arricchire l’informazione con lunghi reportage e sontuosi servizi fotografici a colori, ma anche per raccogliere tutta la pubblicità che non si accontentava del bianco e nero del quotidiano. Sette, il magazine del Corriere, nei primi anni era soprattutto una rassegna dei pezzi pubblicati da tutti i periodici della Rizzoli; noi, che non avevamo un impero editoriale alle spalle, partimmo subito con un’identità autonoma, sebbene legatissima a quella di Repubblica: le grandi firme del giornale realizzavano i sontuosi reportage di cui sopra, ma anche gli asciutti profili dell’Orsa maggiore, sette personaggi nazionali e internazionali della cronaca, della politica, della cultura e dello spettacolo presentati e analizzati in una cinquantina di righe. Spesso magistrali.
Poi c’era la redazione, una variopinta compagine ad alto tasso femminile venuta da tutti i settori del quotidiano. Stipati in un ufficietto, a due passi da Piazza Indipendenza, che sembrava la versione ridotta dell’appartamento di Sofia Loren in Una giornata particolare, mescolavamo saperi e competenze con un certo avventurismo. Era un minuscolo open space casalingo dove risuonavano domande del tipo «Dove va la Y di Marilyn?» o «Ma Perestrojka si traslittera con la J o con la I?». Qualcuno rispondeva sempre, e il più delle volte in maniera corretta. Almeno spero. Ci aveva selezionato Giorgio Dell’Arti, ex caporedattore notturno del quotidiano che, grazie all’esperienza e ai meriti acquisiti preparando i fascicoli sul decennale di Repubblica, aveva guadagnato sul campo la nomina di curatore del Venerdì. Eugenio Scalfari che, prima di fondare questo giornale aveva fondato e diretto l’Espresso, riversava in riunioni lunghissime, e anche accese, il suo know how in materia di settimanali. Veniva spesso in redazione, Scalfari, a volte soddisfatto, altre meno. Però aveva l’aria di divertirsi in quel clima da stato nascente. E a volte dispensava al malcapitato di turno una battuta mutuata da L’armata Brancaleone: «Ti vedo e ti piango». E chi non sapeva che era una citazione cinematografica si preoccupava.
Nell’epoca in cui Repubblica aveva settimanalizzato il quotidiano e i settimanali andavano incontro a una crisi in alcuni casi irreversibile, era una bella sfida fondare un magazine, che peraltro aveva dei tempi di gestazione e stampa biblici. Per chi era abituato ai ritmi del quotidiano era un esercizio estenuante programmare i servizi con calcoli da frate Indovino su agende e calendari. Una volta, uscivamo da pochi mesi, titolando i sette pezzi dell’Orsa maggiore mi accorsi che i nomi dei personaggi, da piazzare in alto sulla pagina, a caratteri maiuscoli, traboccavano di una quantità insostenibile di K, W, J: la programmazione aveva fatto cilecca e il risultato era che, vista la rilevanza dell’Est europeo in quegli anni, ci trovavamo una titolazione che sembrava uno scioglilingua slavo. Ma nel corso degli anni è successo anche di peggio: interviste di copertina a personalità morte (di morte violenta) mentre il giornale andava, lentamente, in stampa.
In questo Amarcord dei tempi eroici bisogna ricordare i molti che hanno lavorato con noi e i direttori che hanno preceduto Aligi Pontani. Dopo Dell’Arti: Franco Recanatesi, Paolo Garimberti, Laura Gnocchi e Attilio Giordano, che ci ha lasciato quest’estate. Un compagno di lavoro meraviglioso. E indimenticabile.