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 2016  dicembre 07 Mercoledì calendario

L’esercito di lavoratori robot che si prepara a sostituirci

«Lo scopo del futuro è la disoccupazione totale, così potremo divertirci», sosteneva con ottimismo lo scrittore di fantascienza Arthur Clarke. Ora che ci stiamo avvicinando a questo scenario, tuttavia, non sembra esserci molto di cui gioire. Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, due studiosi dell’Università di Oxford, nel 2013 hanno realizzato una ricerca intitolata Il futuro dell’occupazione, condotta su 702 mestieri diversi, e hanno stimato che, nell’arco di vent’anni, nei soli Stati Uniti il 47% degli impieghi potrebbe essere affidato a «macchine intelligenti». La rivista americana Newsweek dedica la copertina del numero ora in edicola alla «economia dei robot».
Il titolo è eloquente: «Dimenticate gli immigrati. Sarà questo il nostro rimpiazzo?». È molto probabile, anche se i numerosi tecno-entusiasti dei nostri giorni, ovviamente, sostengono il contrario. Ieri, La Stampa ha intervistato Lisa Spelman, vice-presidente di Intel Xeon, l’azienda che realizza alcuni dei processori che alimentano software di intelligenza artificiale tra i più avanzati del pianeta. Secondo questa signora, «ogni volta che è comparsa una nuova tecnologia dirompente ha provocato reazioni eccessive. Anche per questo», ha detto, «abbiamo il dovere di tranquillizzare le persone e spiegare come l’intelligenza artificiale possa fare del bene, senza sfuggire i problemi e ponendo dei chiari confini». Quando si è trattato di commentare i problemi che l’automazione porta a livello occupazionale, la Spelman ha liquidato la questione velocemente: «Le precedenti innovazioni tecnologiche ci hanno sempre dimostrato di aprire grandi opportunità, non di sottrarcele».Vero. Rispetto al passato, però, c’è una piccola novità, che hanno notato Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, due insigni ricercatori del Mit di Boston, autori del documentato saggio La nuova rivoluzione delle macchine (Feltrinelli). «Quando la tecnologia elimina un tipo di lavoro, o addirittura il bisogno di un’intera categoria di competenze», spiegano i due, «questi lavoratori dovranno mettere insieme nuove capacità e trovarsi un nuovo posto». Ed ecco l’inghippo: la tecnologia, oggi, evolve così velocemente che adattarsi è praticamente impossibile. Lo ha notato pure Jerry Kaplan, già pioniere della Silicon Valley e ora docente a Stanford, in un libro appena uscito intitolato Le persone non servono (Luiss University Press): «Acquisire nuove competenze», spiega, «non è una cosa che succede in una notte: a volte i lavoratori superflui semplicemente non riscono ad adattarsi, e per ottenere il cambiamento si dovrà aspettare una nuova generazione di lavoratori». Tutti gli altri, nel frattempo, rimangono a spasso. Facciamo un esempio, riportato da Newsweek. «Quello del camionista è il lavoro più comune del mondo. Ce ne sono 3,5 milioni nei soli Stati Uniti», racconta Kevin Maney sulla rivista americana. «Quest’estate, il governo olandese ha testato con successo alcuni camion senza guidatore in giro per l’Europa. Uber di recente ha speso 680 milioni di dollari per comprare Otto, una startup che si occupa di camion che si guidano da soli, fondata dall’ex specialista di intelligenza artificiale di Google. La compagnia di consulenza McKinsey ha predetto che, nei prossimi otto anni, un terzo di tutti i camion su strada si guideranno da soli. Nel giro di quindici anni, il camionista sarà un anacronismo».
Nessuno degli autori che ho citato finora e un luddista o un pessimista col vizio di buttarla in tragedia. Quasi tutti, in un modo o nell’altro, arrivano a sostenere che – con le dovute precauzioni – l’impatto della tecnologia sull’occupazione potrebbe essere ridotto. In verità, tuttavia, di soluzioni efficaci non se ne vedono all’orizzonte. Lo stesso Jerry Kaplan giunge ad ammettere: «È la pura verità che l’automazione rimpiazzerà i lavoratori, eliminando i loro impieghi. Questo significa meno posti di lavoro per le persone». Poi aggiunge: «Un’ampia parte degli operai e impiegati di oggi dovrà presto temere la minaccia posta rispettivamente dai lavoratori artificiali e dagli intelletti sintetici». Un recente studio della società di consulenza Roland Berger sostiene che da qui al 2020 gli operai robot costeranno la metà di quelli umani. Nel settore della logistica, nei prossimi dieci anni si perderanno un milione e mezzo di posti di lavoro. E parliamo solo dell’Europa. Entro lo stesso anno, secondo la Commissione europea, la robotica di servizio varrà da sola 100 miliardi di euro.
I francesi Marc Dugain e Christophe Labbé hanno scritto un saggio intitolato L’uomo nudo, appena pubblicato in Italia dall’editore Damiani. Qualunque politico con un po’ di sale in zucca dovrebbe correre ad acquistarlo, perché spiega che cosa sta già avvenendo sotto il nostro naso, e che conseguenze avrà nel futuro prossimo. Nel testo si legge, per esempio, che «dal 2025, secondo il gabinetto del Boston Consulting Group, il costo totale della mano d’opera calerà del 16% grazie all’automazione della società». Per l’economista Daniel Cohen, invece, il digitale è «una rivoluzione industriale senza crescita», motivo per cui circa il 50% degli impiegati rischiano di perdere il posto. E non parliamo solo di operai, agricoltori, camerieri, receptionist e camionisti. Ma anche di medici, avvocati, agenti d’assicurazione, bancari... Colletti bianchi, insomma. La finanza, già da tempo, funziona per lo più grazie ad algoritmi, quelli che il 6 maggio del 2010 hanno prodotto – da soli – la sparizione di circa mille miliardi. Fra non molto, poi, toccherà ai cosiddetti «lavori intellettuali». Nel 2011, dopo essere stato battuto dall’intelligenza artificiale Watson, il campione del telequiz Jeopardy! Ken Jennings fece alcune dichiarazioni che sarà bene tenere a mente. Spiegò di essere stato «il primo lavoratore della conoscenza a essere sbattuto in mezzo a una strada dalla nuova generazione di macchine “pensanti”». E concluse: «Do il benvenuto ai nostri nuovi dominatori, i computer».