LaVerità, 7 dicembre 2016
Il sogno della Silicon Valley è sbarazzarsi degli uomini
Nicholas Carr è uno dei maggiori esperti di tecnologia al mondo. È autore di Internet ci rende stupidi?, bestseller a livello mondiale pubblicato in Italia da Raffaello Cortina, così come il recente La gabbia di vetro, che parla dei rischi legati alla crescente automazione a cui ci stiamo affidando.
Quali sono secondo lei le conseguenze dell’automazione per l’umanità?
«Questa è una domanda molto ampia. Penso che sia giusto dire che l’automazione ha avuto e continuerà ad avere una vasta gamma di conseguenze, alcune buone, altre cattive. Da un lato, il fatto di affidare il lavoro di routine o pericoloso a macchine o computer può aprire nuove possibilità per le persone, portandole a livelli più elevati di realizzazione, sia intellettuale che manuale. D’altro canto, però, l’automazione può renderci asserviti alle macchine e ai computer, rubandoci l’opportunità di arricchire le nostre competenze e di raggiungere quel senso di appagamento che deriva dalla padronanza di nuovi talenti. Ma la grande sfida, oggi, è un’altra».
Ovvero?
«La grande sfida di oggi è che l’automazione, tramite software e robot, sta allargando la sua portata a tutti gli aspetti di competenza umana, comprese le capacità di analisi e di giudizio. E quello che ci troviamo di fronte, purtroppo, è un metodo di progettazione e uso di sistemi che riduce l’impegno del lavoratore umano nei confronti delle sfide difficili, cosa che crea una cultura di passività e dipendenza. Invece di elevarci a lavori più interessanti, ci stiamo trasformando in semplici “operatori informatici”. Questo sta accadendo sia nelle nostre vite lavorative sia nelle nostre vite personali, perché facciamo affidamento sul software per mediare la nostra esistenza. E naturalmente il fatto di dipendere da un sofware ci rende dipendenti anche dalle strutture che forniscono il software. Tutto questo aggiunge il rischio di venire manipolati a quello di diventare passivi».
Secondo lei, dunque, facciamo troppo affidamento sulle macchine?
«Uno dei nostri istinti come esseri umani è il desiderio di essere liberati dal lavoro e dalla fatica. Crediamo, erroneamente, che più la nostra vita diventa libera, più saremo felici. (Queste potrebbe essere definita la “fantasia della dolce vita”). Ma è vero il contrario. Gran parte del nostro senso di soddisfazione passa attraverso il duro lavoro necessario per padroneggiare una competenza difficile. Tuttavia, grazie all’istinto di cui parlavo prima, siamo portati a fare troppo affidamento sulle macchine, al punto da sacrificare la ricchezza della nostra vita».
Lei ha scritto che, a causa dell’automazione, siamo anche più sorvegliati. Perché?
«I computer processano i dati, e più dati processano, più acquisiscono valore. Quindi è naturale che le grandi aziende della tecnologia – Google, Facebook, Amazon, e così via – cerchino di raccogliere quanti più dati possibile. E dal momento che queste aziende, fondamentalmente, fanno business servendo i consumatori, i dati che per loro hanno più valore sono quelli che riguardano i pensieri e i comportamenti delle persone. Così la sorveglianza diventa essenziale per l’automazione nella sua forma attuale. Naturalmente, anche abbiamo una parte di responsabilità in tutto questo».
Quale parte?
«Anche se spesso affermiamo di apprezzare la privacy, è chiaro che la maggior parte delle persone sacrificherebbero rapidamente la loro vita privata al fine di ottenere merci e servizi gratuiti, in particolare quelli che offrono piccoli aumenti di convenienza. Quindi noi stessi, come consumatori e come cittadini, siamo parte attiva nella cultura della sorveglianza».
Che ruolo giocano i social network in questa cultura?
«Poiché i social network offrono i loro servizi gratuitamente, sono quasi interamente dipendenti dalla sorveglianza per i loro ricavi e profitti. Fanno soldi attraverso la raccolta di dati comportamentali e di sofware pubblicità, ed entrambe queste cose comportano il fatto di tracciare i loro utenti. Questa è una delle ragioni per cui le persone si stanno adattando a una cultura della sorveglianza. Più diventiamo dipendenti dai social network, e più compulsivi diventiamo nel loro utilizzo, più accettiamo di essere sotto sorveglianza continua».
Passiamo ora alle conseguenze dell’automazione sull’occupazione. Nel suo libro, lei parla di «computer colletti bianchi». Che cosa sono?
«Fino a poco tempo fa, la maggior parte dell’automazione riguardava lavori manuali o fisici, in particolare il lavoro in fabbrica e quello di produzione agricola. Con i computer, però, l’automazione si sposta nel mondo dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza” e si allarga al lavoro dei colletti bianchi, di medici e avvocati, commercialisti e manager. Oltre a competere con i lavoratori per gli impieghi da “colletti blu”, le macchine sono ora in competizione con i colletti bianchi».
L’uso del computer ha cambiato radicalmente l’economia occidentale, a partire dalla finanza. Con quali conseguenze, secondo lei?
«L’economia globale, nonché molte economie nazionali, dipendono ora dai computer e dalle reti di computer per il loro funzionamento. Questo è vero per il sistema finanziario, naturalmente, ma è anche vero per filiere industriali, reti di distribuzione, vendita al dettaglio, mezzi di comunicazione, e così via. In un certo senso, questa è una continuazione della rivoluzione industriale, che ha incorporato la tecnologia – sotto forma di macchine, burocrazie e dispositivi rudimentali per l’elaborazione dati – nell’infrastruttura del commercio. Ma ci sono anche delle differenze. La tecnologia industriale ha portato a un’esplosione di posti di lavoro per la classe media, dato che le economie e le società sono diventate più complesse e le esigenze dei consumatori sono aumentate. I computer sembrano avere un effetto diverso. Essi consentono un accentramento radicale sia del controllo economico che della ricchezza. I computer concentrano i soldi nelle mani dei proprietari di computer. Portato all’estremo, questo crea non solo enormi disparità economiche, anche nei Paesi ricchi, ma pure destabilizzazione sociale».
L’Unione europea ha appena presentato un piano per la mobilità del futuro. In tre anni, dicono da Bruxelles, saranno operativi mezzi di trasporto pilotati automaticamente. Quali effetti avranno questi nuovi sviluppi secondo lei?
«Beh, ci vorranno più di tre anni prima che le auto che guidano da sole e gli aerei pilotati automaticamente diventino di uso comune. Ci sono ancora alcune sfide tecniche molto difficili che devono essere superati prima che i sistemi di trasporto robotizzati diventino abbastanza affidabili da fare a meno di guidatori umani e piloti. E ci sono molte sfide sociali e culturali. La mia convinzione è che siamo troppo concentrati sui sogni a lungo termine di completa automazione, che può diventare realtà ma anche no».
E su che cosa dovremmo concentrarci, invece?
«Sulle opportunità più immediate di utilizzare la tecnologia per agevolare gli esseri umani piuttosto che per sostituirli. Sulla possibilità di utilizzare i computer per rendere i viaggi più sicuri, più efficienti, e più divertenti. Come molte persone, amo guidare, e non sono certamente desideroso di consegnare le chiavi della macchina a un robot. Io non voglio essere un passeggero nella mia vita».
È ancora convinto che internet ci renda stupidi? Molti hanno risposto in modo critico al suo bestseller...
«Ci sono molti modi di essere stupidi, così come ci sono molti modi di essere intelligenti. Credo che internet ci renda più superficiali come pensatori, più superficiali nel modo in cui prendiamo e diamo un senso alle informazioni. Siamo arrivati a confondere la raccolta di informazioni con lo sviluppo della conoscenza, ma questi sono processi mentali molto diversi. Internet rende più facile raccogliere informazioni, ma rende più difficile sviluppare la conoscenza. Sviluppare la conoscenza comporta la sintesi di informazioni, che a sua volta richiede attenzione, riflessione, contemplazione. Modi calmi di pensare che Internet mina attraverso il sovraccarico di informazioni. Internet ci ha dato una cultura di distrazione, di dipendenza ed emotività».
In questi anni, la Silicon Valley ha formulato una ideologia: una sorta di estrema fiducia nel progresso. Qual è la sua opinione a riguardo?
«C’è una lunga tradizione di utopismo tecnologico negli Stati Uniti, e la Silicon Valley è parte di quella tradizione. Essa definisce il progresso in termini tecnologici, piuttosto che vedere la tecnologia come uno strumento che può aiutare (o sovvertire) la realizzazione del progresso sociale, culturale ed economico. L’utopismo tecnologico, sono arrivato a credere, è fondamentalmente misantropo. Desidera meccanizzare la società, al fine di sbarazzarsi di ciò che vede come fallibilità umana. Ma non ci si può sbarazzare della fallibilità umana senza eliminare l’umanità. Quello che la Silicon Valley vuole costruire è un paradiso per i robot, non per le persone».
Come possiamo uscire da quella che lei chiama «la gabbia di vetro»?
«Con la consapevolezza e la resistenza. Bisogna vedere i punti di forza e le debolezze di computer e software, invece di essere convinti a credere che la tecnologia sia adatta per tutte le situazioni e tutti gli scopi umani. La tecnologia oggi è divenuta un ambiente. Dobbiamo uscire da questo ambiente digitale e vedere la tecnologia come un insieme di strumenti che possiamo utilizzare, con cura, per ampliare le possibilità della nostra vita».