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 2016  dicembre 05 Lunedì calendario

L’Ape costa 4 miliardi. E non dà flessibilità

Uno dei principali grattacapi che ricadranno sulla testa di chi governerà nel 2017 e nel 2018 (oltre ai temi dell’immigrazione e della crescita del Pil) va sotto il nome di occupazione. Non a caso il premier Renzi si è battuto a suon di storytelling, sia per raccontare gli effetti benefìci del Jobs act sui numeri del lavoro, sia per far passare a tutti i costi la riforma del sistema pensionistico post Fornero. Con la legge di Stabilità quest’ultima è diventata effettiva: entra così in vigore un nuovo strumento che consente a migliaia di italiani di andare in pensione prima. L’ufficio parlamentare di bilancio ha sentenziato però che le norme volute da Renzi costeranno nei prossimi tre anni ben 4,1 miliardi di euro.
Una spesa enorme che ricorda, sebbene con parametri diversi, quanto accaduto con gli incentivi sul lavoro. Il paragone si basa su una sorta di sistema di «droghe» che vanno a influire sui dati effettivi e che alla fine non porteranno maggiore occupazione. Un anno di sgravi fiscali sulle assunzioni ha creato una serie di segni positivi sull’occupazione e ha ridotto il numero degli «inattivi». Col mese scorso gli effetti degli incentivi sono venuti meno e a ottobre il calo dei posti di lavoro si è avvicinato alle 32.000 unità.
 
I dati di ottobre. Ora, nella speranza del governo, fare andare in pensione prima gli italiani permetterà di creare nuovi posti di lavoro. La flessibilità in uscita dovrebbe riaprire il mercato facendo entrare nella partita gli under 24. La realtà sarà molto diversa. E lo si può capire analizzando nel dettaglio gli ultimi numeri diffusi dall’Istat.
Come ha sintetizzato l’economista Mario Seminerio, a prima vista gli andamenti sulla variazione annuale si basano su tre pilastri: disoccupazione, occupazione e inattività. In 12 mesi ci sono stati 174.000 occupati in più, 38.000 disoccupati in più, 308.000 inattivi in meno. Nello stesso lasso di tempo, gli occupati con più di 50 anni sono aumentati di 376.000 unità, quelli nella fascia 25-34 anni sono stati 97.000 in meno, quelli tra 35 e 49 anni sono diminuiti di 126.000 unità. «Stando a questi numeri», ha spiegato Seminerio, «per coorte anagrafica, risulta che il tasso di occupazione degli over 50 cresce in un anno dell’1,4%, quello dei 25-34 anni cala dello 0,6%, quello dei 35-49 anni aumenta dello 0,5%», concludendo che è arrivato il momento di sfatare una leggenda metropolitana, «quella che vuole l’aumento degli occupati ultracinquantenni frutto di vivacità del mercato del lavoro». In poche parole, aver tappato il rubinetto di uscita dei lavoratori dal mercato attivo ha fatto schizzare all’insù i dati dell’occupazione, ma non ha creato nuovi posti di lavoro. Per spiegare il fenomeno l’economista fa un esempio molto semplice. L’invecchiamento dei cittadini italiani negli ultimi due decenni ha fatto lievitare il numero degli elettori. «L’invecchiamento della popolazione e l’irrigidimento dei criteri di accesso alla pensione», ha concluso, «spiegano una parte non marginale dell’aumento del numero di occupati. È un effetto ottico ma anche sostanziale, ed è il frutto di mutamenti della composizione demografica del Paese, e delle norme di pensionamento».
L’effetto demografico, unito agli incentivi sulle assunzioni, hanno prodotto una deformazione statistica nel breve tempo, che però senza ulteriori «droghe» andrà a riallinearsi nei prossimi anni. Soltanto che ora andranno a inserirsi le novità sull’Ape e sulle uscite anticipate dal lavoro. Novità che «sballeranno» di nuovo le statistiche, ma che non cambieranno la realtà dei fatti. Migliaia di italiani abbandoneranno le posizioni attive nel mondo del lavoro per incassare un assegno pensionistico. Che cosa succederà a quel punto? Sulle prime potrà aprirsi una porta per i più giovani, esattamente come il governo ha annunciato più volte. Poi ci sarà il riassesto, senza un aumento dei posti di lavoro. Resterà, però, un’eredità pesante per i nostri conti pubblici. Quei 4,1 miliardi di cui scrive l’ufficio parlamentare di bilancio.
 
Le anticipazioni. Le vie d’uscita mappate dall’Upb, scriveva ieri il Corriere della Sera sono: l’Ape sociale; l’anticipo per i lavoratori precoci e quello per chi ha svolto periodi di attività usuranti; la «salvaguardia» per 30.000 lavoratori rimasti nel limbo dal 2011 dopo la legge Fornero; la prosecuzione dell’«opzione donna» cioè la possibilità di andare prima in pensione accettando il calcolo contributivo; il rifinanziamento per gli anni 2017-2021 dei pensionamenti di vecchiaia anticipata per i giornalisti di aziende in ristrutturazione.
A questi interventi si potrebbero anche sommare l’Ape volontaria, il cui costo però è a carico del lavoratore che la sceglie, e il finanziamento da 648 milioni di euro nel periodo 2017-2021 per consentire il pensionamento anticipato (fino a 7 anni prima) di 25.000 bancari.
Il testo originale prevedeva salvaguardie più snelle; poi, in tempi di campagna elettorale, le platee sono state allargate. Più incentivi per tutti. Fra cinque anni capiremo che gli stimoli sono stati la strada sbagliata. Sarebbe stato meglio portare avanti novità strutturali. Peccato che queste sono impopolari e non piacciono ai cittadini. I quali non pensano che 4 miliardi in più per le casse disastrate di questo Paese pesano molto più della del loro valore in sé. Pesano perché sono l’ennesima goccia che rischia di fare traboccare il vaso.