La Stampa, 13 dicembre 2016
Sugli 007 l’unica scelta autonoma
Nelle febbrili ore che hanno preceduto la nascita del suo governo, il tratto più personale del nuovo presidente del Consiglio non si è esercitato sui nomi dei ministri, ma in un impegno programmatico a favore del Sud e in qualcosa che (per ora) conta relativamente poco: il lessico. Nelle pochissime parole espresse in pubblico Paolo Gentiloni ha mostrato un approccio molto diverso dal suo predecessore. Ieri, nel primo pomeriggio il quasi-premier è emerso dalle consultazioni con i partiti, dichiarando davanti ai microfoni: «Ho chiesto al presidente della Repubblica di essere ricevuto per illustrargli il lavoro svolto, salirò al Quirinale alle 17,30». Un’espressione che segnala garbo istituzionale e rispetto delle regole. Scritte e non scritte. Un garbo che nelle prime 48 ore non lo ha certo aiutato nel dare un’impronta personale alla lista dei ministri. Tutti i passaggi più importanti sono stati gestiti direttamente da Matteo Renzi, vero dominus nella formazione della squadra: l’ex presidente del Consiglio ha «benedetto» le due operazioni più controverse in termini di immagine: la permanenza nel governo di Maria Elena Boschi e la promozione di Angelino Alfano.
L’unica casella sulla quale Paolo Gentiloni ha tenuto, chiedendolo espressamente, è stato il controllo sui Servizi: da Marco Minniti passa a quello del presidente del Consiglio. Sull’esempio di quanto già fatto nel passato da Mario Monti. Ma durante la trattativa sulla lista Paolo Gentiloni, col consueto garbo, aveva provato a capire se ci fossero i margini per inserire un ministro su sua indicazione. Ci ha provato con un personaggio che fosse inattaccabile sul piano della competenza e del merito, l’ambientalista Ermete Realacci, ma lo spiraglio non si è aperto.
Avendo fatto il ministro per diversi anni e per due volte (Comunicazione con Prodi ed Esteri con Renzi), Gentiloni sa quanto sia importante per un capo del governo disporre di una «spalla», di qualcuno che in un frangente delicato, ti possa dare una mano. Il presidente incaricato ci ha provato ma non c’è riuscito: in Cdm il presidente del Consiglio non avrà un proprio uomo di fiducia. E d’altra parte era quasi inevitabile che fosse così: Renzi è ancora «dentro» alla vicenda di governo e Gentiloni immagina di poter entrare nel pieno delle sue funzioni da questa mattina, con lo spirito che ha confidato in queste ore: rendere un servizio al Paese e ad un progetto politico nel quale ho sempre creduto.
Nella partita dei ministri l’intrecciarsi di giochi di potere, di veti personali, di partito e di corrente hanno finito per trasformare il governo Gentiloni in una fotocopia del governo precedente. Una fotocopia firmata Renzi. Nel limitato «domino» all’interno della squadra, il posizionamento che stava più a cuore al presidente uscente era quello di avere all’interno del Consiglio dei ministri quello che Gentiloni non ha avuto: un uomo di fiducia. Ecco perché Renzi ha promosso Luca Lotti da sottosegretario alla presidenza a ministro. Ogni volta che Lotti parlerà in Cdm quella sarà la parola di Renzi. Un ruolo che non poteva essere interpretato da Maria Elena Boschi: chi ha provato a consigliarla di lasciare il governo, mantenendo anche lei la promessa di lasciare, ha trovato un muro.
Nelle prime 24 del suo governo, Paolo Gentiloni ha assecondato il corso, ma da questo pomeriggio, leggendo il discorso programmatico, prenderà le briglie del comando. Nelle poche parole espresse pubblicamente Gentiloni ha aperto un dossier finora trascurato da Matteo Renzi, promettendo un impegno per fronteggiare le diseguaglianze, in particolare al Sud. Indicando «quelle sacche di disagio tra il ceto medio, soprattutto nel Mezzogiorno». Un impegno preso di concerto col partito e con Matteo Renzi che, nella Direzione del Pd e poi nella tradizionale cerimonia della campanella ha ostentato un affetto e una sintonia che il nuovo presidente del Consiglio spera siano destinati a durare.