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 2016  dicembre 13 Martedì calendario

Fu Fanghui sfida il modello Chinatown. «Nella mia fabbrica diritti e sindacato»

Il vialetto con qualche aiuola, la raccomandazione in italiano e in caratteri cinesi «non calpestate il prato». Si capisce fin dall’ingresso, curato e pulito, che non è una fabbrica di Chinatown come le altre. Quelle coi fili elettrici penzoloni, i dormitori, i rotoli di stoffa ovunque e i vetri oscurati dai sacchi neri. «Senza la legalità viene meno anche la dignità delle persone» dice Fu Fanghui, 32 anni, il giovane imprenditore cinese che ha fondato “Borse & Borse”, azienda di Campi Bisenzio, comune al confine con Firenze, che è stata visitata ieri dal presidente della Regine Toscana Enrico Rossi e dal console cinese Wang Fuguo, come «esempio di sicurezza e legalità». Nata otto anni fa, ha oggi 160 dipendenti che lavorano ai banconi fra le presse, cucitrici e macchinari moderni. A dispetto del nome, “Borse & Borse” produce solo piccola pelletteria. «Portafogli e portadocumenti, per marchi internazionali» precisa Fanghui.
Per quali?
«Preferisco non dirlo, è una questione di privacy dei clienti, ma sono marchi importanti».
Siete l’unica o fra le poche fabbriche di imprenditori cinesi ad avere all’interno una rappresentanza sindacale.
«È giusto che i lavoratori abbiano una tutela sindacale. Credo anche che il tema della sicurezza debba essere centrale. Non dimentichiamo che qui vicino a noi, a Prato, solo tre anni fa sette operai cinesi sono morti nel rogo di un capannone».
È vero che vorrebbe, con l’aiuto del Comune di Campi, organizzare corsi di italiano per gli operai stranieri?
«Certo. La lingua è una barriera, conoscere l’italiano è importante per integrarsi e conoscere cosa abbiamo intorno. Vorrei anche creare un asilo nido per i figli dei dipendenti, ne ho parlato col sindaco Emiliano Fossi. Se i lavoratori sanno che i loro bambini sono in un posto sicuro e vicino, producono meglio. Poi, io non posso dimenticare il mio passato, le giornate che ho trascorso solo in casa, senza niente o con un pezzo di pane (e io da cinese ero abituato al riso, il pane era un alimento estraneo), perché i miei genitori erano in fabbrica a lavorare».
Da quanto tempo è in Italia?
«Sono arrivato che avevo 14 anni e ho vissuto periodi duri. La mattina andavo a scuola, il pomeriggio aiutavo i miei ad assemblare degli accessori e lì ho parlato a lungo con me stesso».
E cosa si è detto?
«Che se un giorno fossi diventato imprenditore mi sarei ricordato di far star bene i lavoratori. So cosa significa addormentarsi sfiniti dalla fatica sotto un bancone, so cos’è soffrire il caldo terribile d’estate o il freddo d’inverno e quando ho aperto un laboratorio ho messo l’impianto di condizionamento».
Il governatore della Toscana Enrico Rossi vi ha indicato come un modello, ha detto «magari le altre aziende cinesi fossero come voi», è una grossa responsabilità.
«Ringrazio tutti: dal presidente ai miei collaboratori agli operai che hanno reso possibile questa crescita».
In 8 anni siete passati da dieci a 160 dipendenti e a più di 5 milioni di fatturato.
«Abbiamo curato la qualità e la trasparenza. Siamo stati aiutati anche dai fornitori che all’inizio ci prestavano le macchine più tecnologiche per poter fornire un prodotto migliore».
Nelle fabbriche gestite da imprenditori cinesi lavorano principalmente cinesi...è così anche da voi?
«La maggior parte degli operai sono cinesi, ma ci sono pure italiani, romeni, filippini e pachistani. La diversità è una ricchezza, senza integrazione non c’è sviluppo».
Avete la mensa in fabbrica?
«Sì e possono mangiare anche i figli dei dipendenti».
Lavorate di domenica? Quanto guadagna un operaio?
«Di sabato non lavoriamo perché il bus non arriva fino alla fabbrica. Ma la domenica a volte può succedere. I nostri operai hanno il contratto collettivo della pelle e del cuoio...».
Perché l’illegalità, il lavoro nero sono temi irrisolti in molte Chinatown?
«Non ci sono soluzioni facili e i cambiamenti sono lenti». Dopo la tragedia di tre anni fa a Prato, la Regione ha varato un piano di controlli con ispettori Asl nei capannoni e oltre 7mila aziende sono state controllate. «All’inizio solo il 15% dei capannoni che visitavamo era in regola, ora la media è oltre il 50» dice il capo del servizio Renzo Berti. Ma per arrivare al 100% il cammino è ancora lungo.