la Repubblica, 13 dicembre 2016
Il caso Alfano
C’è chi entra e c’è chi esce – una, Stefania Giannini – ma nel passaggio dal governo Renzi al governo Gentiloni chi ci guadagna di più è Angelino Alfano, l’unico politico che sia stato ministro col centrodestra e col centrosinistra. L’unico a essere passato indenne dal governo Letta al governo Renzi. E da ieri sera anche l’unico – nella storia dell’Italia repubblicana – ad avere occupato le quattro poltrone più importanti dopo quella del premier: vicepresidente del Consiglio, Giustizia, Interno e adesso anche gli Esteri. Neanche Giulio Andreotti, che pure fu sette volte capo del governo e 27 volte ministro, riuscì a occupare tutte e quattro le poltrone, facendo poker al tavolo del potere. «Perché vi stupite tanto? In tutti i Paesi al junior partner della maggioranza vanno gli Esteri», ha spiegato ieri ai suoi interlocutori. Il junior partner sarebbe l’Ncd.
Alfano, dunque, ce l’ha fatta. E nel passaggio dal Viminale alla Farnesina affianca il suo nome a quelli di Amintore Fanfani e Mariano Rumor, i soli che furono ministri all’Interno e agli Esteri, oltre naturalmente ad Andreotti e a Vincenzo Scotti che però rimase nel grande palazzo bianco sul Lungotevere solo per un mese e un giorno, preferendo dimettersi piuttosto che lasciare il seggio di deputato, quando la Dc investita da Tangentopoli decretò l’incompatibilità tra le due poltrone. Alfano invece non è incompatibile con nulla, essendo stato prima l’uomo di fiducia di Berlusconi, poi l’alleato più fedele di Enrico Letta e infine il compagno di strada di Matteo Renzi.
Ce l’ha fatta, dunque, ma come ci sia riuscito non si sa. Certo, il pallottoliere della fiducia giustifica tutto, eppure sarebbe arduo spiegare – e non solo a uno straniero – in base a quali meriti, a quali successi, a quali traguardi raggiunti Alfano abbia ottenuto il più vistoso upgrade nel viaggio appena iniziato dal governo Gentiloni. Mai prima d’ora, negli ultimi 60 anni la Farnesina era stata assegnata al leader di un partito del 4,3 per cento (questa è l’ultima percentuale ufficiale, alle europee di due anni fa: oggi i sondaggi lo quotano in discesa, tra il 3,4 e il 3,7 per cento, appena al di sopra della soglia di sbarramento fissata dall’Italicum).
Mai il compito di tenere i rapporti con il resto del mondo era stato assegnato a un uomo che non si è mai occupato di politica estera – e che è andato a Bruxelles quasi solo per discutere dell’emergenza migranti, tema caldo su cui peraltro non è mai riuscito a cavare un ragno dal buco – e che non parla neanche l’inglese: è finita su YouTube l’imbarazzante scenetta del ministro italiano che arriva in ritardo alla riunione con la commissaria europea per gli Affari Interni Cecilia Malstroem (28 agosto 2014) e per spiegare che l’aereo aveva viaggiato controvento dice, gesticolando: «De uaind agheinst as», saltando il verbo e non azzeccando neanche la pronuncia corretta della parola “vento”, wind.
In realtà, un precedente internazionale c’è, nel curriculum di Alfano. Ma, purtroppo per lui, sta nel capitolo “incidenti”, sotto il titolo “caso Shalabayeva”. Una storia ancora fresca. La sera del 28 maggio 2013 la polizia italiana ferma in una villetta della Casalpalocco (periferia romana) Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, le contesta il possesso di un passaporto falso e ottiene in gran fretta un decreto di espulsione per lei e per la figlioletta di sei anni, imbarcandole su un aereo inviato dal presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbaev. Procedura assolutamente fuori da ogni regola, aggravata dal fatto che il passaporto falso risulterà poi autentico e l’espulsione verrà revocata il 12 luglio. Cosa c’entra Alfano? Nulla, ha sempre sostenuto lui, dichiarando di non essere mai stato informato di quei fatti. C’entra, e parecchio, secondo l’ex capo di gabinetto del Viminale, che prima di essere costretto alle dimissioni raccontò che era stato proprio Angelino a chiedergli di occuparsi della faccenda, su richiesta di un diplomatico kazako («Ho ricevuto l’ambasciatore al Viminale perché me lo disse il ministro, spiegandomi che era una cosa delicata…»). Grazie all’appoggio di Enrico Letta, che aprì l’ombrello della maggioranza di governo di fronte alla mozione di sfiducia contro un suo ministro, il titolare del Viminale riuscì allora a evitare le dimissioni, ma nessuno – in Italia e purtroppo anche all’estero – ha dimenticato quel pasticcio internazionale provocato da un ministro dell’Interno.
Certo, Alfano non ha mai fatto mancare i suoi voti, nei mille giorni del governo Renzi, ma è riuscito a macchiare la conquista della legge sulle unioni civili con la sua rivendicazione della cancellazione della “stepchild adoption” («Abbiamo evitato una rivoluzione contro natura») ed è stato costretto a imbarazzanti giustificazioni per la singolare carriera- lampo del fratello Alessandro alle Poste, assunto e subito promosso a dirigente con uno stipendio di 200 mila euro l’anno, e per gli 80 curriculum spediti dal padre del ministro, Angelo, per le assunzioni pilotate nelle stesse Poste. Qualcuno scommetteva che Renzi avrebbe colto l’occasione per scaricarlo: si sbagliava. Alfano è stato promosso, sia pure per meriti ignoti.