la Repubblica, 10 dicembre 2016
La casa del doping
C’erano la “Duchessa” e i “maghi”, fantasie fiabesche per descrivere l’inquietante storia del doping russo dal 2011 allo scorso anno, passando per due Olimpiadi e un’edizione delle Paralimpiadi. C’erano più di mille casi di manipolazioni in trenta sport, c’erano i dopati che già hanno perso le medaglie e quelli che le perderanno. Non ci sono ancora i nomi, coperti per ora da codici, e nemmeno un link tra lo scandalo e il comitato olimpico di Mosca, miracolosamente uscito indenne dal report McLaren e quindi ancora in corsa per partecipare ai Giochi invernali del 2018 in Corea. Ma la seconda parte del dossier del docente canadese alla Western University dell’Ontario ha assestato un altro colpo alla credibilità non solo della Russia, ma dei grandi eventi sportivi di questi anni, presentati ogni volta come il momento più alto nella lotta al doping.
In un’epoca di resampling, di test effettuati con tecniche più sofisticate sui campioni degli ultimi dieci anni, il Cio annuncia che rianalizzerà tutti i campioni dei russi alle Olimpiadi di Londra e di Sochi, passerella da 51 miliardi di dollari voluta da Putin che a questo punto getta ombre anche sui Mondiali di calcio del 2018, che l’Usada, l’antidoping americano, vorrebbe togliere ai russi. Mentre sul fronte opposto si spera in «un intervento di Trump per fermare la caccia alle streghe», come ha chiesto il politico Igor Lebedev. Dall’antidoping alla politica, il passo è breve.
Il Dna nelle provette. Alle Olimpiadi estive, a quelle invernali, alle Paralimpiadi: i casi di atleti coinvolti supera le mille unità. Di questi 600 appartengono al mondo dei Giochi estivi, 95 di quelli invernali. Quindici medagliati russi alle Olimpiadi di Londra finiscono nel mirino di McLaren, 10 hanno già perso la medaglia. Quattro scambi di provette sono documentate ai Mondiali di atletica di Mosca 2013, mentre delle Olimpiadi di Sochi risultano positivi finora due atleti vincitori di quattro medaglie, più una medaglia d’argento femminile. Sul “campione B” di 12 vincitori di medaglie vengono trovati graffi, frutto di manipolazioni. Addirittura, Dna maschile nelle provette di giocatrici di hockey. Perché questo succedeva, nel laboratorio di Mosca.
I “maghi” dei test. Così venivano soprannominati gli agenti dell’Fsb, Servizi per la sicurezza della Federazione russa, grandi protagonisti degli scambi tra provette “sporche” e campioni di urina pulita fornita dagli stessi atleti. Sotto la loro supervisione veniva gestita una banca delle urine che permetteva ad atleti dopati di superare i test. L’ultima presenza dell’Fsb nel laboratorio viene segnalata a fine 2014, mesi dopo Sochi.
Il cocktail “duchessa”. Era un cocktail di farmaci proibiti concesso solo a una lista selezionata di atleti. Lo aveva ideato quello che diventerà il grande pentito del doping russo, il dottor Rodchenkov, fuggito negli Usa dopo la morte dei suoi collaboratori. Applaudito dai colleghi per il suo metodo di scoperta di peptidi e metaboliti di steroidi, Rodchenkov elaborava segretamente un metodo per dopare gli atleti russi con il suo cocktail “a prova di test”: 37 di loro erano autorizzati a usare oxandrolone, methenolone e trenbolone. Le loro urine venivano poi scambiate con quelle “pulite”.
La calma di mosca. Nonostante gli appelli a Trump, i vertici dello sport russo pensando di aver già pagato il conto a Rio, con la squadra falcidata dalla Iaaf e dalla prima trache del dossier McLaren. «Continuate ad allenarvi con calma per le Olimpiadi invernali del 2018, non c’è niente di nuovo», ha decretato Stanislav Pozdnyakov, ex rivale di Montano ora vicepresidente del comitato olimpico.