la Repubblica, 10 dicembre 2016
Sopravvivere e morire dimenticati a Tor Sapienza
Zhang Yao è morta nella Grande Discarica dove rifiuti ed esseri umani sono una cosa sola. Dove la toponomastica racconta un contrappasso, perché i luoghi hanno i nomi della bellezza figurativa italiana e dei suoi maestri (Guglielmo Sansoni, Giorgio Morandi), ma puzzano di urina, vomito, plastica bruciata e carogne di animale.
Zhang Yao è volata via come una bambola di pezza mentre inseguiva tre scippatori e una borsa, lungo i binari di una linea ferroviaria dove corrono la Roma-Tivoli e la Tav Roma-Napoli e dove i cacciatori di rame si muovono come monatti. Insieme ai bambini Rom del campo di via Salviati, che rovistano nei cassonetti come topi, alle prostitute nigeriane e slave, ai trans del Centro Carni.
Insieme agli spacciatori dei falansteri di edilizia popolare che, nel novembre del 2014, si accesero di fuoco e di furia nelle notti della rivolta contro i migranti. Zhang Yao è morta a cinquecento metri dall’Ufficio Immigrati della Questura di Roma, un castello di cemento armato dove lo Stato ha la sua assediata ridotta e oltre il cui ponte levatoio si fa la fila per un permesso di soggiorno in questo inferno dal nome lieve. Tor Sapienza. Quello che vollero dargli gli studenti perugini del collegio di san Girolamo nel ‘400 e che la borgata conservò quando divenne tale il giorno in cui, erano gli anni ’20, un ferroviere antifascista, Michele Testa, decise che era un buon posto per vivere e si mise a tirare su case in cooperativa.
La Grande Discarica prende il sole di Levante, tra Prenestina e Collatina, appollaiata sotto il tronchetto autostradale della A24 verso l’Aquila, prima di quel non luogo chiamato Ponte di Nona, dove la città cambia odore e colore e dove, in un nuovo Medioevo, le giornate finiscono con il primo buio, la chiusura dei negozi e un coprifuoco autoimposto dalla paura. Diciassettemila anime, dice l’ultimo censimento. E un esercito di fantasmi senza nome che si ingrossa e di cui nessuno è in grado di dare i numeri. Quattro centri di accoglienza immigrati lungo la via Collatina, due campi Rom in via Salviati per almeno trecento famiglie di etnia diversa, divise da continue faide. Il primo, voluto da Francesco Rutelli nel ’99, il secondo cresciuto nello stesso perimetro e con la stessa spontaneità dei muri di rumenta, water, divani sfondati, stracci che gli fanno da parapetto e che bruciano ogni notte di un fumo tossico, a cinquanta metri da via Patini, ingresso dell’Ufficio immigrati.
L’ultima volta che da queste parti hanno visto lo Stato era maggio, campagna elettorale per le amministrative. Vennero tutti, i candidati sindaco. Anche Virginia Raggi. E i Cinque Stelle volarono. Spinti dai “forgotten”, i dimenticati, di Roma Est. Trentasette per cento al primo turno. Settantuno al ballottaggio. Poi, Virginia è sparita. Insieme alle promesse elettorali. Anche le più modeste. Due metri di scivolo di asfalto per i disabili in via Morandi. Trenta metri di protezioni per i pedoni in via Collatina, dove uscire di casa è una roulette. I netturbini nelle strade. Al punto da far apparire Ignazio Marino un esempio di coerenza. Nel 2014, durante la rivolta, aveva promesso di regalare a via Morandi un chilometro di illuminazione a led. Fatti 100 metri, buonanotte al secchio.
Racconta Roberto Torre, 66 anni, presidente del Comitato di quartiere, seduto ai tavolini del bar di piazza Cesare De Cupis. «Sono mesi che mandiamo mail alla Raggi. E sono mesi che non si degna di rispondere. Alla faccia del Campidoglio casa di vetro. È una casa di piombo. Abbiamo scritto anche al suo gabinetto. E la sola risposta è stata: stiamo lavorando. Ma a che?, chiedo io». Alla raccolta differenziata dei rifiuti, pare. Anche se l’Ama ha distribuito sacchetti che nessuno può usare, perché mancano i cassonetti dell’umido, del vetro, della plastica, in cui gettarli. Perché nella Grande Discarica tutto è indifferenziato. Esseri umani e monnezza. «Io con quei sacchetti ci vado a fare la spesa al supermercato. Così risparmio sulla busta», chiosa Torre. Alla fine del mese, qualche decina di euro. Che, da queste parti, bastano e avanzano per farsi scannare. Storia di qualche giorno fa. Ancora Torre: «Con uno dei vecchi del quartiere abbiamo festeggiato perché ha ricominciato a parlare dopo due anni. Gli avevano fatto a pezzi la mandibola con un pugno di ferro per fregargli 10 euro».
Si ruba per disperazione, per sfregio, per rabbia. In strada e nelle case. A ogni ora del giorno. E in tutti i modi possibili. Da ultimo nelle palazzine che affacciano sulla stazione ferroviaria. Hanno messo due palanche da cantiere sul tetto di questa costruzione che è stata depredata di tutto il depredabile e da lì sono entrati nelle case. Del resto, esattamente come i netturbini, anche polizia e carabinieri sono un miraggio. L’ex scuola Vittorini, in stato di abbandono da 30 anni, doveva diventare un presidio per la sicurezza del territorio, come ricorda laconicamente il cartello che indica il Ministero dell’Interno committente di un cantiere mai avviato per mancanza di fondi. Dunque, resta il commissariato di quartiere, che però è a Tor Tre teste e vigila su tre quartieri e 180 mila anime. Resta la caserma dei carabinieri di zona, che ha due macchine. Spesso a corto di benzina. E certo la Municipale non ha vocazione per inutili eroismi. Perché nella Grande Discarica è meglio se ti fai gli affari tuoi. Maria Silvano si stacca da una piccola folla che, al centro di piazza De Cupis, sotto un triste abete fasciato di rosso, chiede sicurezza e grida al vento il proprio abbandono. «Era la festa della donna e stavo sull’autobus – dice – Vedo tre ragazzotti che mettono le mani in tasca a un signore che era andato a comprare i pasticcini. Uno di loro mi dice: “Che cazzo ti guardi, stronza”. Sono arrivata a casa che mi scoppiava il cuore dalla paura». E dalla vergogna. «Sono ventisei anni che vivo qui. E quando mi chiedono dove abito, non ho più il coraggio di dire che sto a Tor Sapienza». Maria lavora come donna delle pulizie in centro. Esce di casa alle 5 e ogni giorno, maledicendo chi ha dimenticato lei, la sua famiglia, sua figlia, «che per farla studiare lontano da qui, andava al liceo artistico di via Ripetta». Alzandosi alla stessa ora della madre. Perché anche l’Atac non ha corse da e per l’Inferno.
«Qui c’è rimasto il 437, che porta a Rebibbia, il 314 che va a Largo Preneste e il 313 che va a Centocelle – dice Augusto Aldi, un uomo sulla sessantina – Hanno spostato le fermate come cazzo gli pare. In via Cecioni per non da’ fastidio a uno che c’ha i banchi. Sulla Collatina, pe’ fa salì le mignotte quando staccano. Se voi anda’ in centro, o vai a Rebibbia e prendi la metro. O aspetti domenica». Sì, perché solo nei festivi l’Atac porta dentro le mura, nella città della Ztl. Con il “150”. Fino a piazza del Popolo, ma senza fare tutte le fermate.
«Hai capito, sì, de che stamo a parla’?», interrompe Christian. È un ragazzone in tuta che parla la lingua di quell’odio di prossimità che distillano i luoghi dove gli ultimi sono condannati a condividere il nulla con gli ultimi degli ultimi. «Dentro ‘sta discarica nun c’entra più un cazzo. Sta’ a tracimà. E un giorno il fuoco l’appiccamo noi. Ma dentro quei campi de’ zingari. E sti’ cazzi la politica. Famo da soli. Qui lo sai l’unico famoso che ancora viene chi è? Francesco Totti. C’è uno scarparo che fa le scarpe a mano». Dicono siano care. E si chiedono che ci stia ancora a fare qui.