Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  dicembre 12 Lunedì calendario

Larry Holmes. L’uomo che non voleva picchiare Ali. «L’America non mi ha più perdonato»

È l’unico che ne ha picchiati due chiedendo all’arbitro di fermarlo. E uno dei due era Ali, l’altro Marvis Frazier. È l’unico che si è ritirato ricco e lo è ancora. È l’unico che ancora si porta addosso il peccato di aver colpito un mito: che bisogno c’era di fargli male? È l’unico che è salito sul ring mentre il presidente (bianco) del suo paese chiedeva una linea telefonica diretta per congratularsi con l’altro (bianco). Larry Holmes oggi ha 67 anni, veste elegante, da businessman, ha un taglio di capelli un po’ punk e un giro di affari da cento milioni. Lo chiamavano l’Assassino di Easton, Ali invece l’aveva soprannominato Peanut. Nocciolina, per gli occhi a palla e il viso gonfio. Il suo jab era da leggenda, la sua fama un po’ meno. Veniva dopo Ali, ma non era Ali, era solo il suo sparring- partner. Eppure è stato campione mondiale dei massimi per sette anni, dal ‘78 all’85. E ha difeso il titolo 20 volte con successo. Nell’86 ha lasciato il ring per poi tornare a combattere fino a 52 anni. «Per soldi, solo per soldi. Per togliermi la povertà di dosso».
Larry, lei solidarizza con chi non riesce a smettere?
«So che non mi vedevo così vecchio e sul ring quello era un problema: per qualche minuto riesci ad essere quello che eri. 75 incontri, 69 successi, 6 sconfitte con 44 knockout raccontano che non ero da buttare. Poi ti rialzi, e all’improvviso ti accorgi che non ne hai più. Però mi pagavano bene e io sono realista, a certe offerte non so resistere, già dall’infanzia».
Povera e durissima.
«Sono nato a Cuthbert, Georgia, in una famiglia contadina di dodici figli. Campi di cotone e spine. Quando avevo sei anni ci siamo spostati a Easton, Pennsylvania. Papà un giorno se n’è andato al nord, in fabbrica, è tornato solo per dirci che se ne andava con un’altra donna. Sono cresciuto a riso e fagioli, ma sempre poco, mai troppo. L’unica cosa che avevo di più erano le dita: sei. Mi hanno operato. Ho iniziato a lustrare scarpe per 15 centesimi, dopo la scuola, dove mi volevano far passare per scemo. Non ci sono più andato, quando mi sono venuti a prendere per riportami in classe ho tirato fuori un coltello. E sono finito in riformatorio. Ho fatto di tutto: combattere fuori dai bar, e chi vinceva guadagnava il pranzo; lavare macchine: ne avevano 200 al giorno da fare, per due dollari e mezzo l’una. E anche rubare autoradio che rivendevo a 25 dollari. Avevo 13 anni e dovevo campare. Ho lavorato ovunque: saldatore, operaio, camionista. E sulla strada certe cose capitano».
Risse, droghe, scontri razziali.
«Soprattutto dopo la morte di Martin Luther King era facile essere coinvolti in una retata o in rivolte da strada. Tra le mie stupidaggini: ho affrontato a mani nude un bianco che aveva un fucile e diceva di volerci ammazzare tutti. Avevo anche un amico con cui bevevo e mi drogavo nel fine settimana. Quando mi sono fatto di hashish però ho avuto paura: mi sono venute le allucinazioni, straparlavo, non capivo più niente. Ho smesso in quel momento, lui ha continuato, è diventato un trafficante, l’Fbi l’ha tolto di mezzo con una mitragliata di pallottole. Avrei fatto anche io quella fine se non mi avesse preso Ernie Butler in palestra».
Lei ha iniziato facendo lo sparring di Ali nel ’72.
«Sì a Deer Lake, nel suo camp. Non è che lo capissi tanto in certi atteggiamenti. Però anche se non mi pagava, mi trattava bene, con cibo e materiali. Purtroppo la sua cuoca, Lana Shabazz, figlia di Malcolm X, non cucinava maiale e non ci faceva mangiare il burro. Non ci credeva nessuno al mio paese che ero lo sparring di Ali così un giorno gli ho chiesto se potesse venire dalle mie parti e lui mi ha detto sì. Naturalmente si è anche fermato in carcere per dire ai prigionieri: il sistema vuole voi neri schiavi nelle galere».
Nell’80 lei mise fine alla carriera di Ali.
«Che dovevo fare? Aveva 39 anni, io 31. Gli volevo bene, ma lui non voleva andare giù. Lo picchiavo con moderazione, lui si rifiutava di andare al tappeto. Al nono round lo centrai con un montante che lo lasciò tramortito. Faceva smorfie, non reagiva, ma non crollava».
Dimentica il destro al rene che lo fece urlare.
«No. Qualcuno ha fatto il conto: l’ho colpito 320 volte. Si lasciava fracassare, soffriva e resisteva, guardavo l’arbitro prima di far partire il pugno, come a dire; ci pensi tu a fermare questo massacro? Non volevo ammazzare Ali, ma come si fa a picchiare l’avversario quel tanto che ci vuole e non di più? Gli arbitri non prendono cazzotti, sono programmati per non interrompere lo spettacolo, campano sui rifornimenti all’orgoglio che spesso è solo disperazione. Non parliamo dei manager che ti mandano al cimitero».
Sylvester Stallone parlò di un’autopsia su un corpo ancora vivo.
«Per me è stato un tormento, piangevano tutti, alla fine avevo i goccioloni pure io, ero cresciuto con Ali, gli dovevo molto, ma dal mio angolo continuavano a urlarmi: Larry, quell’uomo sta cercando di rubarti tutto quello che hai. È stata l’unica vittoria che mi ha depresso. Mi sentivo uno schifo, così sono andato a trovarlo. Stavo già male prima di entrare in camera sua, poi fu ancora peggio. Era stanchissimo in pessime condizioni. Gli dissi: ti voglio bene, resti il più grande. Lui per rincuorarmi, scherzò: amico, ti ho insegnato tutto e guarda come mi hai ringraziato, ma ti sfiderò ancora e ti distruggerò. Era fatto così, ma non me l’hanno mai perdonata. Sembrò che il Parkinson glielo avessi fatto venire io, che ero stato una bestia brutale. L’America non era con me».
Nemmeno nell’82 nel mondiale contro Gerry Cooney.
«Figurarsi: eravamo il nero contro il bianco. Lui era the Big White Hope, la prima possibilità per un bianco di tornare campione dei massimi dopo un quarto di secolo. C’erano i cecchini dell’Fbi sopra i tetti del Caesars Palace di Las Vegas perché ormai non era solo boxe, ma uno scontro razziale e si temevano colpi di fucile. Io ho subito minacce, mi hanno imbrattato la casa, in Mississippi ci furono sparatorie. Ronald Reagan era anche il mio presidente, ma si fece installare una linea diretta con Cooney, cocco del paese, per essere il primo a congratularsi. E il suo allenatore lo mandò sul ring al grido: l’America ha bisogno di te. Dov’era l’uguaglianza?».
Lei però ha offeso la memoria di Marciano dicendo che non era granché.
«Ero arrivato a 48 incontri da imbattuto. Il record di Rocky Marciano era di 49. Ho perso contro Michael Spinks che aveva 29 anni contro i miei 36, e ho detto che l’America preferisce sempre un bianco a un nero. E che non è mai troppo dispiaciuta se un nero non strappa un record a un bianco. Dov’è l’errore?».
Contento dell’orgoglio nero che lo sport americano ha tirato fuori?
«Sono contento se uno fa quello che vuole. Tipo ascoltare l’inno in ginocchio. Non m’impiccio. Io non sono mai stato Ali, né l’ho mai preteso. Ma da suo killer sono passato ad essere una vittima. L’avevo punito e quindi meritavo di essere punito anch’io. Nessuno ha veramente riconosciuto i miei meriti. Oggi non vedo gli incontri di boxe, non mi sembra ci siano molti campioni appassionati, si guadagna di più facendo quattro salti in tv. Non si può costruire il pugile in palestra, deve avere qualcosa dentro. Non è solo e tutto tecnica. E non parlatemi delle donne. Libere di boxare, ma anch’io libero di non guardarle».
Inizia sempre i pranzi dal gelato?
«Mi è rimasta l’abitudine da quando stavo in prigione. Quando arrivavo al dolce era già finito. E così ho imparato a chiederlo prima. Anche adesso che al mio paese mi hanno fatto una statua, che io e la mia famiglia ce la passiamo bene, quella paura non mi è mai passata. Io non sono mai stato Ali, più che ai sogni, ho badato alla fame».