la Repubblica, 12 dicembre 2016
Nel tunnel più lungo del mondo
Si entra che c’è il sole, avvolto da una luce che sembra di primavera, e si esce che l’asfalto è bagnato e un cielo grigio e scoraggiante viene solcato da un deltaplano. Il clima mediterraneo protetto dalla barriera delle Alpi? Esatto, lo si capisce passando nelle viscere del San Gottardo, restando al coperto e, più che al calduccio, dentro una sauna: nel treno si respira un’aria condizionata da clinica, sui binari la temperatura è di 46 gradi. Senza la tecnologia, il pianeta terra farebbe collassare i primi passeggeri che ieri, in quest’inaugurazione popolare senza un briciolo di pompa magna, hanno cominciato ad attraversare la galleria ferroviaria più lunga del mondo. Poco prima che l’Eurocity 14 Milano-Zurigo venga assorbito dal buio del tunnel – un buio frammentato da solitarie lucine bianche che fuggono via velocissime, come nei film di fantascienza – una voce femminile, moderatamente amichevole, in quattro lingue avverte: «A breve percorreremo la galleria base del San Gottardo. Con una lunghezza di 57 chilometri. Si tratta della galleria ferroviaria più lunga al mondo. Il viaggio è della durata di circa 20 minuti. In caso di domande, il personale dei treni rimane volentieri – il tono si alza – a vostra disposizione». Ma per quanto il personale sarebbe «Happy to tell you», non c’è nessuno che faccia uno straccio di domanda. Qui, lo scorso primo giugno, erano arrivati capi di Stato e di governo, per magnificare la nascita di un «asse di trasporto che va dal porto di Genova a quelli di Zeebrugge in Belgio e Rotterdam in Olanda, attraverso la Germania, una delle macroregioni più industrializzate del pianeta». C’erano Matteo Renzi, François Hollande e Angela Merkel. Ma ieri, nella carrozza 4 di seconda classe, la signora del Sudest asiatico continua a sferruzzare, i due albanesi con i jeans strappati non per questioni di moda, parlottano a bassa voce e una ragazza svizzera dorme, accasciata come un orso in letargo. Sopra le loro teste gravano duemila metri di roccia, la motrice supera i 200 chilometri all’ora e gli schermi dei video, piazzati lungo il corridoio, alternano immagini di nuvole in alta quota e biciclette, di laghi calmi e di campi scoscesi, di neve e di ombrelloni. Se non si è visto male, non c’è nemmeno l’immagine placida di una mucca, ma una telecamera – «sono registrazioni» – rimanda le immagini velocissime delle pareti della galleria ferroviaria.
«Sarei stupito se avessi ricevuto domande», dice Salvatore Grado, controllore che abita a Zurigo dopo aver vissuto tre anni a Londra ed essere partito, negli anni ’80, da Palermo «anche se avevo il posto fisso». La sua è una spiegazione psicologicamente perfetta: «Agli svizzeri quello che interessa è la puntualità, non le chiacchiere. Non è questione di “mi piace” o “non mi piace”, loro sono felici se le cose funzionano». E, qui, sotto le Alpi, «quando ho seguito il corso, necessario per poter lavorare su questi treni, ho visitato spesso i cantieri e – continua il signor Grado, con ammirazione – ho visto con i miei occhi i progressi costanti. Però, quelli che si vedono sotto la terra, in fin dei conti sono gli stessi che si vedono anche alla luce del sole, nei giardini e nelle strade, perché ogni svizzero guarda e cura la sua piccola parte di territorio, ma ogni parte entra in un grande mosaico, che poi si compone, questa è la Svizzera».
Zurigo, ore 12.51: perfetti, e persino in leggero anticipo alla precedente stazione di Zugo, i passeggeri scendono. Tre ore e venti minuti, invece delle quattro che s’impiegavano prima del traforo. Quaranta minuti risparmiati, costati alla tasche svizzere undici miliardi di euro per diciassette anni di lavori. Se gli ecologisti si sono chiesti se ne valesse la pena, e se la montagna non andasse lasciata in pace (le montagne sacre, però, in Europa non esistono da parecchi secoli ed è appena trascorso il secolo nucleare), seduto nella prima carrozza di prima classe avevano trovato, mescolato agli scarsi passeggeri del mattino, Toni Hane, il fisicamente massiccio responsabile di treni svizzeri a lunga percorrenza, che rilancia orgoglioso: «Oggi non c’è uno svizzero che ignori l’avvenimento. Questo è il primo giorno del traforo aperto al pubblico, ma non è mica finito. Tra quattro anni, nel 2020, quando anche il tratto della galleria del Monte Ceneri sarà ultimato, per la tratta Milano-Zurigo basteranno tre ore».
Al ritorno, anche se il treno per Milano è molto più affollato, il tasso di «normalità svizzera» resta invariato. Dice il calvo Luca: «All’andata sì, molto veloce, adesso non me ne sono nemmeno accorto, dormivo». «Abbiamo visto dagli orari che ci mettevamo mezz’ora di meno, ma non sapevamo il perché, bello il doppio tunnel», è la sintesi di un gruppo di amici. La signora Pilar fa partire il cronometro sul telefonino: «Sono claustrofobica, questi dicono venti minuti, ma all’andata mi sono sembrati trenta», si lamenta, e per di più, il treno si ferma. Un treno merci, davanti a noi, ha dei problemi. Di quale entità?
Di entità svizzera, perché riparte presto e quando risbuca a Pollegio, e torna il sole del tramonto, i minuti trascorsi risultano ventidue spaccati: «Però l’altro treno – continua Pilar – anche se ci metteva di più, ti portava in alto, si vedevano le tipiche case svizzere a punta, i pascoli, e specie con la neve…». «Sì, è vero – aggiunge un signore di Lugano – il tunnel fa risparmiare tempo, ma perdiamo in bellezza, sino a ieri questo viaggio era una cartolina».