La Stampa, 8 dicembre 2016
Gli acuti della Siri in un Giappone da cartolina
La versione originale di Madama Butterfly, che quando debuttò venne stroncata da tutti, pubblico e critica, meritava un’altra chance. L’ha avuta ieri sera per volontà di Riccardo Chailly. Sono passati 112 anni dalla fischiatissima prima del 1904 e 33 (!) da quando un titolo pucciniano non inaugurava la Scala. Il rapporto di Puccini con Milano è sempre stato faticoso.
Abbiamo ascoltato un’altra opera rispetto a quella che conosciamo. Più ruvida nelle armonie; più spietata nel rendere la vanità e la codardia di Pinkerton, l’ufficiale di marina americano che sposa, per gioco e comprandola, una ragazza giapponese di 15 anni orfana del padre suicida, la fa ripudiare dalla famiglia, la porta al ripudio della propria religione, la mette incinta, sparisce, torna con la vera moglie americana, e per giunta è convinto, in modo sprezzante, della superiorità della civiltà occidentale.
Puccini gli nega, in questa prima stesura, anche la consolazione della sua aria di congedo «Addio, fiorito asil». Genialmente coraggiosa – rispetto alle abitudini di ascolto del pubblico italiano di un secolo fa – nel mantenere la tensione del secondo e ultimo atto, senza mai spezzarla, nell’inesorabile progressione tra attesa, illusione, desiderio, delusione e suicidio finale di lei: «Niente entr’acte e arrivare alla fine tenendo inchiodato per un’ora e mezzo il pubblico! È enorme, ma è la vita dell’opera», era la convinzione del compositore già molto tempo prima di andare a scena. Aveva ragione. Ma questa prima Butterfly è anche più prolissa nelle scene d’ambiente giapponese del primo atto e meno straziante nell’addio di lei al figlio.
Il rapporto d’elezione di Chailly con Puccini esce rafforzato da questa interpretazione. La partitura si muove tra memorie e anticipazioni, ansie e abbandoni, improvvise tremende cupezze, ha un’intermittenza nervosa resa dal continuo alternarsi di allargando, ritardando, crescendo, diminuendo, che si placa solo per aprirsi a degli ampi momenti lirici. È questa inquietudine, questo continuo mordente, che Chailly sbalza in primo piano, facendoli attraversare da limpidi tagli di luci diverse che restituiscono la fibrillazione coloristica di una musica attenta anche all’ambientazione giapponese, ma mai in chiave decorativa o folklorica, sempre invece drammaturgica.
Questa prima delle tante successive Butterfly – l’opera aperta di Puccini per eccellenza – era ritornata in scena già nel 1982 alla Fenice di Venezia, nella revisione critica di Julian Smith, alla quale si è affidato ora anche Chailly. Difficile dire se accadrà ancora in futuro; ragione di più per non perdere questa occasione.
Lo spettacolo patisce una contraddizione: mentre Chailly asciuga e concentra, la regia di Alvis Hermanis, che con Leila Ftetia firma anche le scene, non avendo molte idee, addobba, ricostruendo un Giappone da cartolina e bamboleggiante, arrivando a sporcare con banalità coreografiche anche la stupenda intimità del coro a bocca chiusa. Si riscatta solo alla fine, nell’incedere rituale, ma troppo esibito e lungo, con cui Butterfly si taglia la gola. Il direttore è attento al dramma, il regista alla decorazione, complici i sontuosi, eleganti ma uniformi costumi di Kristine Jurjane.
Maria José Siri, al debutto nel ruolo, rende molto bene il lirismo e la drammaticità di Butterfly, ha acuti sicuri, fraseggi eleganti, vere dolcezze di emissione; ma le manca ancora la tragicità che il ruolo infine esige. Bryan Hymel (Pinkerton) ha tutta la voce che serve, screziata però da pochi colori. Carlos Alvarez (Sharpless) e Annalisa Stroppa (Suzuki) convincono, per intensità e misura. Applausi freddi al termine del primo atto, convinti alla fine per direzione e protagonista femminile. Tiepidi per tutti gli altri.