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 2016  dicembre 08 Giovedì calendario

Prima della Scala. Le note stonate sono della politica

Sette secondi. Se proprio volete pesare gli applausi, beh, allora sappiate che il messaggio tristanzuolo di Mattarella letto al pubblico scaligero da un Pereira imbarazzato nel suo perdurante italiano da sturmtruppen ha registrato un applauso della durata di sette-secondi-sette, mentre il successivo inno d’Italia «autorizzato» sempre da Mattarella ha registrato un applauso di secondi quattordici. Due record negativi, e non sono gli unici, dipende dai punti di vista: sicuramente c’è da segnalare un record di presenze di Forze dell’ordine (perlomeno in rapporto al numero dei dimostranti, quattro gatti sfigati più silenti e inutili del Cnel) e poi un minimo storico di politici, di intellettuali, di «artisti», di panterone vestite da circo e persino di imbotulate professionali: moltissimi zigomi pompati, in compenso. Per l’elenco dei vip rivolgetevi ad altri giornali: segnaliamo anche qui un minimo storico fotografi che si eccitavano nell’immortalare Alfonso Signorini e Carlo Cracco, per capirci e poi solita roba, Roberto Bolle, Corrado Passera e signora, Roberto Maroni, Mario Monti, Diana Bracco rimasta senza sigarette, Emma Marcegaglia, l’ex moglie di Calderoli, l’impronunciabile ambasciatore del Giappone (va bene, eccolo: Kazuyoshi Umemotoal) e Renato Balestra, Giovanni Bazoli, Carla Fracci, più un sacco di altri che chissenefrega. 
Naturalmente è stato un «trionfo», ma tranquilli, la recensione costipata quest’anno non la facciamo: l’opera abbiamo fatto appena in tempo a vederla e non abbiamo avuto né tempo né voglia, nei giorni precedenti, di spiare le prove e la «primina», o ancora di chiacchierare con orchestrali e talpe varie, insomma: non abbiamo esercitato nessuno dei trucchi necessari a scrivere un papiro decente in un quarto d’ora, cioè il poco tempo residuo considerando che il giornale va in stampa venti minuti dopo la fine dell’opera. E poi, confessione: lo scrivente ha visto tre stracci di Butterfly in vita sua (poche) e nessuna era nella versione di ieri sera, ossia quella originale in soli due atti e perciò diversa da tutte le altre: forse migliore e più equilibrata, ma parliamo di impressioni di pelle e di cuore, non di un’analisi decente. Una delle Butterfly, peraltro, era proprio di Chailly e proprio alla Scala nel 1996, ma neppure quella era normale: già allora il maestro aveva fatto dei taglia e cuci nel secondo atto e aveva reintrodotto delle scene mai viste e sentite prima. Tenete conto che stiamo parlando di una delle cinque opere più eseguite del mondo: questo per farvi capire l’assurdo di un pubblico scaligero che dapprima, nel 1904, la bocciò sonoramente al punto da scacciarla da Milano per ben 21 anni, mentre già trionfava in tutto il mondo. È quasi un risarcimento quello che Chailly ha riproposto ieri sera, a margine di un lavoro di rielaborazione durato molti anni: il che non toglie che questa versione ora vada metabolizzata, visto che solo nel primo atto abbiamo ascoltato centinaia e centinaia di battute musicali mai sentite prima, più che altro affreschi finto-pentatonali che dovevano accrescere l’acclimatazione giapponese. Non ci è piaciuta, ci è parsa datatissima, ma spiegare perché è un altro paio di maniche. 
Sicché, a proposito di impressioni di pelle, torniamo a qualcosa che molti ieri mormoravano ma che pochi dicevano chiaro, cioè che, tutto sommato, il signor Presidente della Repubblica Sergio Mattarella tutto sommato ha fatto la figura del cafone. Opinione diffusa: a lui Milano non va proprio giù, non è mai piaciuta, il Presidente non ha mai digerito la collaterale centralità milanese rispetto all’ovatta delle stanze romane. Se può snobbarla, lo fa: l’ha fatto. Altri, volendo, ieri erano anche giustificati: sapevamo che certa presenza politica era pura facciata niente di nuovo ma soprattutto sapevamo che il ministro della Cultura Dario Franceschini, classico imbucato scaligero, ha un certo ruolo correntizio del Pd e doveva presenziare alla Direzione del partito, così come è vero che il presidente del Senato è pur sempre il presidente del Senato (deve occuparsi del Senato) al pari di altri che parimenti sono stati rapiti dalla crisi di governo. Si capisce. Ma la disdetta last minute di Mattarella, coi mezzi che pure avrebbe per spostarsi rapidamente, ha avuto tutto il sapore di un ennesimo snobismo civil-culturale: la sua presunta centralità politica, per qualche ora, forse poteva anche essere gestita: in fondo che cambiava se avesse ricevuto Renzi ’stamattina anziché ieri sera? Mattarella poteva certo saltare la visita all’istituto per madri o alla comunità di Don Rigoldi o a quella di Don Gnocchi, figurarsi poi se non poteva saltare la visita alla Triennale o all’inserto del Corriere della Sera. Sta di fatto che è stato digerito male. 
Peraltro aveva di che farsi perdonare, visto che già l’anno scorso aveva lanciato un segnale sgradevole: aveva preferito presenziare alla cerimonia religiosa di uno Stato estero (l’inaugurazione del Giubileo in Vaticano) in omaggio alla sua estrazione montiniana così scevra dall’affacciarsi a eventi mondani, perché va anche detto che nell’accezione mattarelliana la Prima della Scala resta fondamentalmente un evento mondano. Poi magari è infarcito di capi di Stato: sta di fatto che sul palco reale al posto di Mattarella si sono accomodati quattro terremotati di Ariccia e di Accumuli (sul serio: li ha invitati il sindaco Giuseppe Sala) mentre l’uomo senza qualità, sempre Mattarella, è restato nel sarcofago romano nell’interesse del Paese, beninteso: del resto quella milanese è soltanto la Prima più importante del mondo, anche se certo, in Spagna, Francia, Russia, Germania, Svizzera, Inghilterra, Irlanda, Australia, Usa, America Latina e persino in Corea del Nord saranno tutti d’accordo che parlare con Dario Franceschini e con Renzi sia stato molto più importante. Soprattutto, più rappresentativo del ruolo italiano del mondo, già: anche quel 45 per cento di stranieri che ha acquistato i biglietti della Prima scaligera, e che ha fatto crescere di due milioni di euro l’indotto economico per la città (+ 40 per cento negli alberghi) è tutta gente che avrebbe preferito essere a Roma in via del Nazareno, a spiare la direzione del Pd, oppure sulla collinetta di Montecitorio a discutere del Consultellum. È senz’altro così. Poi magari dicono che le banche e la finanza e i parvenu occupano tutto: per forza, se il bilancio 2016 della Scala chiuderà in pareggio sarà solo grazie a loro, non certo grazia alla politica: sarà solo grazie al finanziamento privato voluto dal sovrintendente (molto abile a lavorare per la Scala e, di passaggio, per il proprio futuro) e quindi al neo complicato status di «fondazione lirico sinfonica dotata di forma organizzativa speciale». Se la Scala sta in piedi, va detto, è per sponsor come D&G, Nagel, per al contratto con Rolex prorogato fino al 2020, per la sfilza di abbonati «corporate» tra i quali spiccano banche, banche e ancora banche: altrimenti col cavolo che la Scala riuscirebbe ad autofinanziarsi e a sopravvivere. Non parliamo di noccioline: per meno di 600mila euro il Teatro non lo puoi sponsorizzare, ecco perché poi possono spadroneggiare persino i Dolce & Gabbana con le loro sfilate dentro il teatro. 
Vabbeh, diciamo quattro parole su quello che abbiamo visto. Regia: poiché l’opera raffigurava un oriente caricaturale e inesistente sin dall’inizio, Alvis Hermanis non è riuscito a peggiorarlo (è moltissimo, oggigiorno) e la mancata filologia non costituisce rimpianto, ma alla lunga tutto è venuto a noia. In pratica c’era una vera casa giapponese su più livelli perfettamente studiata attorno all’immaginario occidentale del Giappone (e i laghetti, e il kimono, le pietre, i mandorli, i giardini, le pareti semoventi) ma l’effetto è stata un’effettiva mancanza di profondità; sembrava, per chi l’ha visto, il programma di Roberto Dagostino su Sky: un continuo pip (picture in picture) ma molto meno dinamico e soprattutto reso un po’ mesto dalle luci di Gleb Filshtinsky, che, a differenza dei costumi di Kristine Jurjane, non ci sono piaciute per niente. 
In un quadro già appiattito e bidimensionale, Filshtinsky ha azzardato effetti pastello sin troppo rosati/aranciati e diffusi (un po’ da liveshow domenicale) ad altri bluastri che raffreddavano paradossalmente i momenti più drammatici e passionali, restituendo al bianco imperante delle maschere un azzurrognolo spettrale più da Sol morente e meno da Sol levante. 
È pur vero che, nell’insieme, luci e scenografia non disturbavano, non distraevano, soprattutto non spiegavano le speciali visioni del mondo del regista Alvis Hernanis, uno che il mestiere lo maneggia e sa stare al suo posto: ma il fatto che negli anni passati sia stato fatto tremendamente di peggio non può essere una consolazione eterna. 
A ben pensarci, è lo stesso ragionamento che milioni di italiani hanno fatto col governo Renzi.