la Repubblica, 9 dicembre 2016
Addio a Greg Lake cuore elegante del progressive
C’era una volta un rock che narrava fiabe scritte per giovani uomini cresciuti nei vividi giardini dell’utopia. Erano terre magiche, creature di fantasia, barbari e cavalieri in cerca di avventura. Esattamente com’era successo a Crosby, Stills e Nash, a volte per raccontare queste storie bastava mettere insieme tre cognomi, tanto per sottolineare che di quello si trattava: dell’unione di tre distinte personalità che decidevano di fare un pezzo di strada insieme. Ma la strada di Emerson, Lake & Palmer era lontana dal sole felice della California, era piuttosto un sentiero da battere con i passi maestosi del gigante, con sontuose aspettative, costruendo magniloquenti castelli sonori, marciando dritti e imperiosi verso nuove terre da conquistare.
Gregory Stuart “Greg” Lake, cantante, bassista, chitarrista, compositore, produttore, è morto a 69 anni dopo aver a lungo combattuto contro il cancro, pochi mesi dopo il suo ex compagno di strada, il tastierista Keith Emerson, ucciso dalla depressione conseguente a una malattia che lo limitava nell’uso delle mani, in un anno micidiale che non smette di mietere vittime nel grande pantheon del rock.
Quando stabilì le sue elettive connessioni con Emerson e Carl Palmer, Lake veniva da un’esperienza considerata la casa madre delle ambizioni “progressive” che il rock cominciò a mostrare già alla fine degli anni Sessanta, ovvero i King Crimson, e partecipò a quel vero e proprio manifesto programmatico di nuova musica che fu In the court of the Crimson King. Ottima premessa per la nuova sensazionale avventura che lo avrebbe portato a costruire una delle più celebri e osannate icone del rock di tutti i tempi, di solito abbreviata nell’acronimo ELP. Certo la band non si risparmiava. Fin dal primo disco intitolato solo con i loro nomi, e poi con Tarkus, stabilì uno standard altisonante, poco contenuto, altamente virtuosistico, al punto da diventare immediatamente oggetto di controversia tra il popolo del rock. Per non dire del terzo e più celebre disco firmato Emerson Lake & Palmer, ovvero Pictures at an exhibition, che aggrediva direttamente il mondo classico riscrivendo e reinterpretando in chiave rock l’opera di Mussorgski.
Era la definitiva presa di possesso da parte del rock delle musiche “alte”. Non solo le composizioni classiche venivano piegate alla logica del rock, ma ci si cantava anche sopra, con la massima disinvoltura, come fosse la cosa più naturale del mondo. Per molti erano eccessivi, barocchi, altisonanti, per altri erano l’apice di una padronanza tecnico-strumentale di cui il rock aveva assoluto bisogno. Sta di fatto che il gruppo determinò un preciso spartiacque, ma di sicuro una consistente parte di qualità la doveva proprio a Greg Lake, non solo per la bravura come strumentista e compositore, ma anche e soprattutto per la sua splendida voce, dotata di un naturale ed elegante understatement, tale da creare un singolare effetto di contrasto con la pomposità della band e stemperare la retorica, come un monito di semplice ed empatica umanità all’ombra di colossali monumenti musicali. Esempio luminoso era la splendida Lucky man, cantata con voce pacata, “normale”; alla fine del devastante e ambizioso viaggio costruito nel loro primo album. Ai fan italiani piace ricordarlo anche come fondatore dell’etichetta Manticore che all’alba del “progressive” mise sotto contratto anche la Pfm e il Banco. Ma ancora di più, in questi giorni, ci piace ricordarlo per un delizioso pezzo firmato da solista. Era un singolo del 1975 intitolato I believe in Father Christmas, cantato con la consueta elegante e limpida voce. La voce delle favole.