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 2016  dicembre 09 Venerdì calendario

Alessandro Gassmann: Serio per gioco. «Meglio buonista che prepotente sui social»

Intervistare Alessandro Gassmann è una partita a tennis. «Si comincia?». Si siede nel bar del quartiere romano Prati e parte con la prima battuta, sicuro, ironico, veloce.
È in sala con “Non c’è più religione” di Luca Miniero in cui interpreta un musulmano convertito per amore, alle prese con un Presepe vivente multietnico.
«Tocca un argomento importante, l’integrazione tra comunità diverse. La risata è uno strumento utile per superare i luoghi comuni. Mi sono rivisto senza provare disgusto: è un film che fa sorridere, non punta il dito e non è buonista. Io mi considero un buonista. Ho sempre preferito i buonisti ai cattivisti».
“Non c’è più religione”: è un bene o un male?
«Per me ce n’è troppa, è questo il paradosso, ed è un male. Continuo a sostenere che la nostra debba restare una società laica. E poi mi interessa capire chi non conosco, e lo faccio da ambasciatore dell’UNHCR, una missione che mi rende felice».
È molto attivo su Twitter, ora con la campagna per il Teatro Valle.
«Il Teatro Valle è stato occupato con idee secondo me buone, che poi però non hanno portato frutti. È stato sfollato in modo aggressivo dalle forze dell’ordine con la promessa: “Lo liberiamo per poterlo mettere a posto”. Da un anno e mezzo sono stati stanziati soldi e nessuno ci ha messo mano, Marino, il commissario Tronca, il sindaco Raggi. L’umidità sta creando danni. Da cittadino che paga le tasse voglio che i miei soldi vengano usati per salvare una cosa mia, nostra, di grande valore».
Esporsi alla fine danneggia? Le campagne social la rendono antipatico a qualcuno?
«Di certo alle persone che critico, ma mi sono dato un regola: non dire parolacce, rispettare chi non la pensa come me. Solo agli insulti più profondi rispondo a tono, di solito in romanesco. Ma non mi faccio portare nella rissa e non faccio politica».
Né ora né in futuro?
«No… c’ho da fa’».
Ottimista per il nostro paese?
«Non lo ero prima del referendum, non lo sono dopo».
Anche suo padre ha fatto le sue battaglie.
«Con il Teatro popolare, alla fine degli anni 50, portò a sue spese una tenda di tremila posti nelle periferie e nelle province del dopoguerra. Il grande teatro classico a prezzi popolari. Ogni tanto penso di farlo anch’io, la situazione nelle nostre periferie somiglia a quella di allora, abbandono, poca qualità. Da solo non ci riesco, ma con un gruppo di colleghi vorrei piazzare una tenda nella periferia romana e stare lì cinque mesi, a prezzi stracciati».
Quando suo padre faceva lo spettacolo nella tenda lei diceva che Renato Zero…
«Ce l’aveva più grande. È vero. Ma avevo 17 anni, non era vero. Fu la prima tensostruttura senza pali centrali a impedire la vista. Papà perse molti soldi e dopo cinque anni dovette venderla».
Ha appena girato con Marco Giallini un film sui social.
«Sì, Beata ignoranza. Io sono il 50enne sempre connesso, lui quello digiuno. Ci ritroviamo a scambiarci i ruoli, io scollegato, lui a imparare i nuovi mezzi».
Lei riuscirebbe ad essere sconnesso per un mese?
«Sicuramente».
Sognava la vita campestre, si iscrisse ad agraria.
«Sì, per due anni, a Perugia. Ma per non farmi mantenere da mio padre accettai offerte come modello di moda, perché ero caruccio. Capii che avrei potuto tentare, con la faccia che avevo e sfruttando il mio cognome, di rendermi indipendente. Poi caddi nel gorgo cinematografico, andai alla scuola di teatro di mio padre, capii che non ero del tutto negato…».
Una volta soffriva di attacchi di panico.
«Li ho superati. Analisi, una minima dose di medicinali che poco dopo smetti di prendere. Molta gente ha paura degli attacchi, non sa neanche di averli. E invece ce la si può fare».
Il suo rapporto con la menzogna e con la verità?
«Sono stato un bugiardone da ragazzo: ero pessimo a scuola e vivendo con Vittorio Gassman dovevo invece in qualche modo fingere di avere una vita scolastica migliore. Poi a un certo punto della mia vita, grazie agli incontri che ho fatto, ho imparato a farne a meno. Oggi mento solo per non dire verità dolorose o eccessive».
C’è stato un momento in cui posò per un calendario, per potersi riguardare un giorno e ricordarsi com’era stato.
«Quel giorno è già arrivato».
Ne ha in casa una copia?
«Ma no. Ogni tanto arrivano signore con vecchie copie ingiallite, “mi firma questa cosa?”. Ricordo che scattammo le foto in una spiaggia frequentata anche da turisti. Ogni tanto qualche italiano mi riconosceva: “A Gassmann, ma che stai a fa’ attaccato a sta roccia? Attento ai ricci...”».
A suo figlio lo farebbe fare il calendario?
«Può fare ciò che vuole, ha compiuto diciott’anni la settimana scorsa. Va bene a scuola, vuole fare psicologia, hai visto mai che dalla famiglia che ne esce uno serio».
Ora è serio anche lei.
«Lo sono diventato. A mio figlio dico: “Amore, va bene ma non ti dimenticare che hai diciott’anni, fai anche delle cazzate…”».
Ora arriva in tv e prepara il nuovo film da regista.
«Su Rai1 porto I bastardi di Pizzofalcone. Sono contento che la Rai abbia deciso di attingere alla letteratura italiana contemporanea e ad autori di successo come Maurizio De Giovanni per fare delle produzioni serie. Il film lo sto scrivendo con Walter Lupo e Massimiliano Bruno. Sarà una commedia, un road movie, il viaggio di una famiglia sui generis da Roma a Stoccolma, 2.428 chilometri. Il titolo? Dovrebbe essere Il premio. Il Nobel, naturalmente».