Il Sole 24 Ore - Domenica, 4 dicembre 2016
Il mio amico Leonardo
Sciascia va a Roma a trovare Mario, il quale ricambia andando a Racalmuto: l’affetto «ci casca dentro naturalmente»
Puntualmente, una volta all’anno (al limite dell’autunno, come in piena estate), il mio amico Leonardo viene a Roma. Dico «si imbarca alla volta di Roma», e sono più preciso: tanto quel viaggio partecipa insieme della terra e del mare (anche se avviene molto semplicemente col treno, e pronto è il ferry-boat a fargli superare in un lampo il brevissimo intervallo di acque).
Perché Leonardo è siciliano. Vive in quel di Agrigento, a Racalmuto (non confondetelo, come è successo a me la prima volta, con Regalbuto, forse più importante ma da tutt’altra parte). Racalmuto è un paesino di zolfatari e cavatori di salgemma, soggetto alle ire dell’affrico, e in altri tempi alle razzie saracene. Non è difficile rintracciare nel volto olivastro bruciato dai grandi occhi neri del mio amico, i tratti di uno di quei lontani predatori.
Anche la sua accidia (confessatissima) viene d’Oriente. Un’accidia vistosa che a sovrapporla combacia perfettamente con la mia, anche se i miei antenati siano predatori indigeni (dei colli d’Alba). Un’accidia comune, dunque: ed è la prima ragione del nostro pieno accordo.
Leonardo si occupa di critica, narrativa, poesia (dirige anche una rivista che si intitola «Galleria» e si vale di tanti bei nomi di collaboratori: Tumiati, Tobino, Ulivi, Petrocchi e via dicendo). Il primo anno Leonardo è venuto a trovarmi con un libretto striminzito d’una trentina di pagine, manoscritto: Le favole della dittatura. L’anno dopo mi ha portato, sempre manoscritto, un libretto di poesie: La Sicilia, il suo cuore. Quest’anno, proprio in questi giorni, fresco ancora di tipografia, mi invia un Pirandello e il pirandellismo che tocca sì e no le cento pagine.
Questo per dirvi che scrive pochissimo come me, sia per non tediare troppo l’incauto lettore, sia per non spendere troppi quattrini col tipografo, visto che non abbiamo lo slancio necessario (e neanche la forza di persuasione) per ridurre alla nostra mercè l’editore illustre di Firenze o di Milano. In compenso, guardiamo molto in giro, molto ci interessano i luoghi nei quali viviamo: lui si contenta di quel suo paesino in quel di Agrigento e magari degli immediati paraggi, io della fetta di paese, quanto basta al mio appetito, che mi son tagliato in questa Roma cosmopolita, illuminandola con la lampada a petrolio in dispregio a troppo neon.
Leonardo, vi dicevo, viene a Roma una volta l’anno. Grande è l’emozione di quel viaggio che non chiude occhio per tutto il percorso e, peggio, neanche qui: ed io mi preoccupo di trovargli l’albergo tranquillo, la stanza con la finestretta affacciata sul cortile quieto come il fondo d’un pozzo. Va a vedere i film nuovi, le nuove commedie: capacissimo di passare da una poltrona all’altra dalle tre del pomeriggio alla mezzanotte; e l’unica gita turistica che affronta ha un percorso obbligato: da San Luigi dei Francesi corre a Sant’Agostino e a Santa Maria del Popolo: tre chiese disseminate lungo un chilometro nelle quali può scambiare quattro chiacchiere col suo Caravaggio. Quando ha previsto sette giorni di vacanza, gliene bastano cinque per colmarsi di sensazioni, di emozioni: prenota il posto sul diretto eludendo le vostre ragioni, e l’indomani ripiglia la via di Racalmuto.
La prima volta ci siamo incontrati da lontano (io con un libretto di versi, lui con un articolo di critica a quel libretto). Venuto a Roma, gli ho restituito la visita a Racalmuto, e conto di tornarci presto. Conosciuta Roma, Leonardo ha una nostalgia viva di Roma che dura dodici mesi, per esaurirsi in sette giorni (o meno: viaggio di andata e ritorno, e permanenza). Visto Racalmuto, anch’io nutro una nostalgia per quel paesino scivolato lungo il colle, con le sue case grigie di semplici pietre legate dalla malta, la sua gente taciturna; ma arrivandoci, al secondo giorno sentirò subito il richiamo di Roma (una nostalgia letteraria forse. Vorrei abitare in quella torre aperta sulla campagna, mentre lui si accontenterebbe d’un abbaino affacciato su piazza Navona. Ma per quanto?).
Penso che per avere Roma a portata di mano Leonardo abbia sul tavolo i miei libretti di poesia, come io ho il suo libro (La Sicilia, il suo cuore). Mi basta di aprirlo e sono a Racalmuto. Mi sveglia il grido del venditore ambulante: apro la finestra e sulla soglia della casa di faccia il capraio munge la capra, muovo quattro passi e mi trovo al cimitero (Leonardo ha i suoi morti fuori l’uscio di casa, e questo è il suo vantaggio su di me che debbo fare troppa strada, e il mio bambino morto me lo trascino dietro ad ogni passo).
Un’amicizia ideale, dunque, che non ha occasioni per rompersi o tralignare. Si nutre di lettere (una va, una viene), di piccoli gesti reciproci, così spontanei che l’affetto ci casca dentro naturalmente. Il primo ad occuparsi d’un mio nuovo libretto è sempre Leonardo, sempre Leonardo il primo a giurare sulla sua validità e a meravigliarsi che nessuno se ne accorga (anche se qualche volta fa scandalizzare i Falqui, i D’Amico eccetera). Pronto ad accendere intorno ai miei versi l’attenzione di altri letterati suoi conterranei, e così mi capita che viaggiando in Sicilia i miei lettori di laggiù siano tutti amici suoi, e tutti mi conoscano (troppo in meglio) dal ritratto che Leonardo ha fatto di me.