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 2016  dicembre 04 Domenica calendario

I Nazareni, i pittori dai capelli sulle spalle

La storia. Se ne andavano in giro con i capelli lunghi sulle spalle, e una tonaca fino ai piedi; per questo, al solito salaci, i popolani romani li avevano soprannominati Nazareni. Erano un gruppo di pittori romantici tedeschi, divenuti cattolici e emigrati da Vienna, sfuggendo all’accademismo: arrivano in città a inizio Ottocento. I primi quattro, vi approdano nel giugno del 1810; e, con la mediazione del direttore dell’Accademia di Francia, vanno a vivere nel convento di Sant’Isidoro, vicino all’attuale via Veneto: in una strada che, grazie a loro, è ancora chiamata degli Artisti. Erano gli anni del periodo napoleonico: una fetta del luogo era stata requisita; l’altra, rimane ai francescani irlandesi, ed è affittata a Friederich Overbeck, Franz Pforr, Ludwig Vogel e Konrad Hottinguer. Vivevano in comune, anche quando andavano, la sera, a bere nei bar. L’anno dopo, vengono raggiunti da Peter von Cornelius; e nel 1912, Pforr muore di tisi ad Albano. Ma presto, ne arrivano un paio d’altri: sempre giovanissimi e sempre ribelli e un po’ avventurosi.
Arcaismo. Overbeck disegna l’emblema da porre sul retro di ogni loro dipinto: San Luca, patrono della pittura, e un monogramma, con le iniziali dei componenti del gruppo. Al centro, la W con cui comincia la parola Wahrheit: la Verità. Avevano una ispirazione comune: il Quattrocento italiano. Si rifacevano all’Angelico, a Raffaello, a Filippo Lippi, al Perugino, a Luca Signorelli; ma anche ad Albrecht Dürer e all’antica pittura tedesca. Spesso, posavano tra loro: gli uni per gli altri; lavoravano a memoria; non risulta che dipingessero dal vero, né che abbiano mai ritratto delle modelle, tanto meno discinte. Fratellanza e povertà contemplativa; c’è chi esalta l’origine celeste e divina dell’arte sacra. Goethe definisce «una mascherata» il loro movimento; per Hegel, erano più preoccupati della loro salvezza che dell’arte; Vincenzo Camuccini li sfotteva chiamandoli «i puristelli»: non piacevano a tutti. E gli inizi, sono stati da fame.
Commesse. Finché, nel 1816, il console generale di Prussia, affida loro la decorazione di una sala della residenza, che era Palazzo Zuccari: l’attuale Biblioteca Hertziana. Staccati nel 1887, quei dipinti, di Cornelius, Overbeck, Friederich Wilhelm Scadow, Philipp Veit sono alla Alte Nationalgalerie di Berlino. Rappresentano le Storie di Giuseppe; e valgono, agli attisti dalla lunga chioma e lunghe tuniche, un nuovo, più proficuo lavoro, che si può ancora ammirare. Infatti, l’anno successivo, è il marchese Carlo Massimo (una casata che, per qualcuno, è la più antica d’Europa) ad affidare a loro la decorazione della casa di campagna, che era vicina al Laterano. Una villa della quale si è perduto il verde: era in una vigna, acquistata nel 1605 dal marchese Vincenzo Giustiniani, uno dei primi committenti di Caravaggio; certi pezzi della sua straordinaria collezione d’antichità, così finiscono sulla facciata della palazzina di due piani. Alla fine del Settecento, diventa dei Massimo, per 6.500 scudi. Nel 1848 sarà dei Lancellotti, che nel 1871 cedono il parco come area fabbricabile; e nel 1885 regalano al Comune il portale d’ingresso: dal 1931, quello di Villa Celimontana. Dal 1947, la Villa è dei frati Custodi di Terra Santa.
Gli affreschi. Nel Casino Massimo, sono tre stanze, dedicate a Dante e la Commedia; a Torquato Tasso e la Gerusalemme liberata; a Ludovico Ariosto e l’Orlando furioso. Inizia la prima Cornelius; ma nel 1818, se ne va a Monaco, chiamato da Ludwig di Baviera, e la termineranno Veit e Joseph Anton Koch. Al Tasso pensa Overbeck che, morto il marchese nel 1827, finisce ad Assisi e lascia il resto, già abbozzato, a Joseph Fürich, appena arrivato. Nella camera centrale, quella dell’Orlando, tocca a Julius Schnorr von Carolsfeld. Dieci anni per concludere il tutto; e nomi che, ormai, dicono qualcosa soltanto agli indottrinati. Ma sono scene a effetto: si rifanno anche al Michelangelo nella Sistina. A Roma, i Nazareni celebrano l’arrivo dell’imperatore nel 1819 con una collettiva: sarà la base per altri successi, una volta ritornati in patria. A Roma, resta soltanto Overbeck: vi morrà nel 1869.