LaVerità, 6 dicembre 2016
«Il denaro è una malattia mortale. Eliminiamolo e staremo meglio». Intervista a Pierangelo Dacrema
Ho il forte sospetto che Pierangelo Dacrema sia un genio. La casa editrice Jaca Book ha appena pubblicato il suo nuovo libro, firmato assieme all’artista Carla Della Beffa. Si intitola La morte del denaro. Una lezione di indisciplina, ed è straordinario, perché unisce una grande capacità di analisi a una visione sconfinata, che sulle prime può risultare traumatica, ma che poi si chiarisce e diventa estremamente suggestiva.
Dacrema è un economista sui generis e propone, in sostanza, di abolire il denaro. Non il contante: tutto il denaro. Ha in mente un sistema economico che può sembrare utopistico, ma che alla fine dei conti non è così irrealizzabile. Si tratta, appunto, di vedere il mondo da un punto di vista diverso. Di fare un piccolo sforzo e immaginare una società in cui l’imprenditore si prende cura (come spesso già avviene) dei suoi operai. In cui gli operai lavorano, come diceva Charles Péguy nel saggio Il denaro, «perché essi odono il sordo richiamo del lavoro che vuol essere fatto», e fatto bene. Un sistema basato sulla fiducia, in cui si ottiene in re-lazione alla qualità del proprio operato, e non si ha valore solo per l’ammontare del proprio stipendio. Un sistema, infine, in cui vengono aboliti alcuni costi micidiali.
«Siamo abituati a sottoporre tutto all’analisi costi-benefici, ed è giusto e civile», spiega Dacrema. «Ma di fronte a certi strumenti la nostra valutazione si annichilisce. Sull’analisi costi-benefici della moneta si è fatto molto poco».
Beh, qualche economista che si è messo ad analizzare quanto ci costa il denaro c’è...
«Sì, qualche ragionamento si è fatto, ma si tratta sempre di analisi superficiali, perché in realtà i costi sono macroscopici. Intanto dobbiamo fare una premessa».
Ovvero?
«Gli uomini da sempre vivono di gesti, e tramite questi producono oggetti. Poi però c’è chi si interessa esclusivamente di numeri. E non mi riferisco solo a banchieri e finanzieri, ma a circa un terzo degli occupati a livello mondiale, quasi un miliardo di persone si occupa della manutenzione del denaro, nelle aziende – gestendo per esempio la contabilità – come nelle banche. Dunque, se noi viviamo in un mondo di gesti che producono oggetti, quella di tali persone è una produzione apparente. Per farla semplice: non si lavora per incrementare la torta: ci si affanna a dividerla».
Questo è il primo costo del denaro. Quali sono gli altri?
«Oltre alla produzione apparente c’è la disoccupazione apparente. Sappiamo che la disoccupazione è a livelli molto alti in tutta Europa. Ma un disoccupato, nella maggioranza dei casi, non è un individuo incapace di produrre o di lavorare».
E che cos’è?
«È una persona separata dalla moneta. C’è tutto un mondo che dice ai disoccupati che senza retribuzione non valgono nulla. Ma non è così: sono separati dal denaro perché non ricevono lo stipendio».
Se non ci fosse il denaro, che cosa farebbero?
«Le chiedo uno sforzo di immaginazione. Mettiamo che il mondo cancelli la moneta, ma la mattina dopo tutti continuino a fare esattamente quello che facevano prima. I disoccupati apparenti si trovano senza un mestiere, ma non sono più separati dal denaro. Dunque entrano in gioco come possibili altri occupati. Possono inventarsi un lavoro, mettere in piedi un’impresa».
Mi scusi, ma per quale motivo non potrebbero farlo anche nel mondo in cui è presente il denaro?
«Perché, appunto, non hanno il denaro. Diciamo che in un mondo senza denaro, costoro avrebbero una libertà in più. Poi, intendiamoci, un sistema post monetario come quello che immagino può permettersi livelli di non efficienza enormi. Ma non perdiamo di vista il punto centrale: io metto in discussione il denaro come motore centrale dell’economia. Questa è una distorsione culturale: noi pensiamo che sia il denaro a muovere tutto, ma lo stimolo al cambiamento, nel mondo, è sempre stato creato da altro. E qui veniamo al terzo costo del denaro».
Cioè?
«Le motivazioni deviate. Ogg tantissimi sono abbacinati solo dalla motivazione deviati del denaro, dallo stipendio. La qualità e l’efficacia del lavoro passano in secondo piano. Non importa come si lavora ma quanto si guadagna lavorando, indipendentemente dalla qualità. Infine, tornando ai costi del denaro, dobbiamo mettere in conto gli effetti della crisi finanziaria».
Quelli li abbiamo pagati parecchio.
«Ne arriverà un’altra. Non sappiamo quando, ma succederà. Anche questo è un costo del denaro».
Si spieghi.
«Esplode la crisi. Sul piano effettuale, il mondo rimane esattamente uguale a prima. Ma a un certo punto, la tempesta dei numeri diviene tempesta cerebrale, perché il nostro pensiero è legato ai numeri e in economia il pensiero è azione. Così la crisi passa dall’economia virtuale a quella reale. I gesti dell’imprenditore cambiano, egli si deprime, magari licenzia. Tutto per via di un problema legato al denaro, un problema che è solo immaginario».
Lei, nel suo libro, sostiene che il denaro è velocità. Perché?
«È velocità allo stato puro. Le faccio un esempio. Io sono un fumatore, di solito entro dal tabaccaio, do qualche euro e prendo le sigarette. Ma questa è una finta oggettività. Se non ho il denaro, io continuo a volere le sigarette, le voglio talmente tanto che sono sicuro di riuscire lo stesso a convincere il tabaccaio a darmele. Ci metto solo più tempo. Ciò che fa il denaro è velocizzare l’operazione. Ma l’uomo, fin dall’età della pietra, ha cambiato il mondo senza il denaro, con i gesti. Il denaro è velocità: tutto accade anche senza, ma col denaro accade più velocemente».
Oggi il denaro è talmente veloce da diventare invisibile. Ci sono i bancomat, i pagamenti elettronici...
«In questo modo il denaro non sparisce, diventa solo più veloce. Si riduce sempre più ai numeri. In un futuro non troppo lontano il denaro sarà soltanto un sistema di numeri».
Già oggi sono in molti a propugnare l’abolizione del contante, sostenendo che aiuterebbe a combattere l’evasione.
«Io non parlo di sparizione del contante, ma della creazione di un sistema non monetario. Io parlo, per intenderci, di un sistema in cui chi deve costruire la barca per Abramovic si domanda se dargliela o meno, dove chi produce può scegliere. Il mio è un sistema estremamente meritocratico, in cui chi ha voglia di fare ha molto e chi non ha voglia ha poco».
Mettiamo che, nel suo sistema, io voglia del pane. Posso andare dal fornaio e lui può rifiutarsi di darmelo?
«Ci sono delle regole. Su tutti i beni di prima necessità, è vietato dire No. Così come sulla casa. Poi c’è una categoria di beni in cui la risposta del produttore si basa sulla fiducia. Voglio essere chiaro: il mio sistema prevede i ricchi».
Ah, si?
«Certo. Nel mio sistema, però, alla proprietà corrisponde la responsabilità. Se sono un bravo imprenditore ottengo di più, i bravi operai vorranno venire da me».
E se invece di essere un imprenditore sono uno che fa un mestieraccio, duro e faticoso?
«Nel mio sistema può darsi che chi fa un mestieraccio si senta dire che merita, per esempio, una Bmw. La mia è una utopia meritocratica di mercato. Oggi le parole “mercato”, “competizione” non sono capite in profondità. Il mercato evoca varietà di opinioni, partecipazione a una collettività. In realtà, il denaro non collima molto con il mercato né con la capacità di fare politica. Oggi la politica è ridotta a una questione di risorse. Una cosa si fa o non si fa a seconda che ci siano le risorse. Ma non si tratta di risorse umane. Si tratta di denaro: la politica è un sistema di conti».
Senza, il denaro, invece?
«Le faccio un esempio preso dalla storia. Quando è caduto il muro di Berlino, Helmut Kohl ha messo insieme le due Germanie. Crede che si sia preoccupato del denaro? Per niente. Da un giorno all’altro, un operaio dell’Est si è trovato con uno stipendio sei volte superiore. È stato traumatico, ma è stato fatto. Le faccio un altro esempio?».
Prego.
«Mario Draghi è un ottimo presidente della Bce. Draghi sa che, se per due o tre anni dovesse fare un’inflazione superiore al 2%, verrebbe licenziato. In sostanza: se il sacro strumento della moneta subisce un degrado, Draghi viene mandato via. Una cosa simile, con un politico qualunque non avviene. Prendiamo Mariano Rajoy in Spagna: resta su anche se la disoccupazione arriva al 20%. Perché non va a casa, visto che causa un degrado della società? Perché il denaro è più importante degli esseri umani».
Io ho la sensazione che, in realtà, stiamo già andando verso una economia post monetaria. Nel senso che il denaro sta sparendo: sia perché diviene sempre più virtuale sia perché gli stipendi si assottigliano sempre di più e il denaro si concentra nelle mani di pochi. È una economia post monetaria, ma con tendenza totalitaria.
«Si tratta del cosiddetto “effetto San Matteo”. A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche il poco che possiede. Il denaro non è più uno strumento, ma un fine. Bisogna prenderne atto. Si è impadronito dell’individuo, entra nel cervello di tutti e lo governa, è una malattia. Una società può farcela anche senza denaro».