La Stampa, 6 dicembre 2016
Nel paese col record d’invalidi. «Renzi vuole mangiare solo lui»
«Berlusconi ci vuole, Berlusconi». Il signor Francesco – «niente cognomi, meglio di no» – una settantina di anni passati a votare prima Partito repubblicano, poi Craxi, quindi Andreotti, infine il leader azzurro, ha una formula molto semplice per spiegare perché ha votato no alla riforma: «Quelli mangiavano e facevano mangiare, questi vogliono mangiare solo loro», dice mentre alle tre del pomeriggio si avvicina al bancone del bar centrale per un caffè. Al suo fianco il coetaneo Salvatore, consigliere comunale del Pri a Corleone ai tempi della Prima Repubblica, convinto che «Renzi qui non ha dato niente a nessuno, l’unica cosa che voleva fare era attorniarsi dei suoi amici».
Benvenuti nel centro più anti-renziano d’Italia, Villabate, paese-dormitorio alle porte di Palermo, 24 mila abitanti che hanno affossato la riforma con una percentuale dell’81,2 per cento, dato condiviso da tre comuni del Catanese (Paternò, Camporotondo Etneo e Santa Maria di Licodia) e dal paesino di Alì, in provincia di Messina. Reddito medio annuo pro-capite di cinquemila euro, disoccupazione oltre il 70 per cento, cinquecento famiglie su seimila nelle liste dell’assistenza, record di invalidi, la spesa sociale terza voce nel bilancio dell’amministrazione, i 130 dipendenti del Comune senza stipendio da un mese, i ventuno operatori della società di nettezza urbana “Tech” senza retribuzione da due, gli agrumeti che una volta erano l’oro del paese lasciati in abbandono, «perché nessuno ormai i mandarini li compra più e un contadino costa ottanta euro al giorno», raccontano gli anziani.
Benvenuti nella Sicilia disperata, Sicilia di cemento e di speculazione, abitanti raddoppiati negli ultimi trent’anni a ritmo degli “emigrati” dalla vicina Palermo in cerca di case a un prezzo più basso. «È stato un voto di protesta, la riforma c’entra poco», sintetizza Marco Cenci, giovane assessore alle Attività sociali di una giunta guidata dal sindaco Vincenzo Oliveri, ex giudice di Corte di Appello in pensione, eletto con un pool di liste civiche, arrivato alla guida del paese dopo che il suo predecessore, Francesco Cerrito, era stato beccato da Le Iene ad “aggiustare” le nomine degli scrutatori alle scorse elezioni europee.
Andando indietro nel tempo, il Comune era stato sciolto per mafia nel 1999 – sindaco Giuseppe Navetta – e poi di nuovo nel 2004, sindaco Lorenzo Carandino, accusato dal pentito Francesco Campanella di essere “uomo d’onore”, oggi in una cella del carcere di Pagliarelli. «Qui bisogna farsi sempre i fatti propri e nessuno ti tocca», spiega un uomo con il bastone e il sorriso sghembo.
«Io ho votato Sì al referendum – dice Mariella Gandolfo, dietro il bancone del bar centrale – credevo in un cambiamento. Temo che abbiamo perso un’occasione». Nella piazza principale, dominata da un tempietto della musica Liberty che sembra precipitato dal cielo tanto incongrua è la sua grazia, c’è il barbiere con l’insegna “Figaro”. Il titolare è Pino Di Lisciandro, 69 anni, capelli ricci e brillantina. «Qui Renzi non ha fatto breccia – spiega – la gente ha ancora fiducia in Berlusconi, non ha mai creduto che questo governo potesse portare un po’ di benessere».
E i giovani? Sono andati via. In Francia, in Inghilterra, nel Nord Italia. Tutti via, verso la speranza di un futuro. Due scuole, una elementare e una media. Niente comitati, niente movimenti civici, niente luoghi di aggregazione. Gli ultimi vent’anni di Palermo, quelli della rivolta civile, dei comitati dei lenzuoli, delle spaccature feroci sul fronte dell’antimafia sembra non abbiano mai investito neanche con un refolo questo paesone immutabile. Giovedì, all’incontro sul referendum organizzato alla biblioteca comunale da due professori di buona volontà, si sono presentati in dodici.