la Repubblica, 6 dicembre 2016
Era uno schifo, ora è ok. Lo slalom grillino sulla legge elettorale
ROMA La folgorazione sulla via di Palazzo Chigi si materializza a tarda notte sul blog. L’onda del No ha appena travolto il governo, Renzi ha già annunciato dimissioni irrevocabili, il rischio di elezioni anticipate è tutt’altro che un’ipotesi remota: per il Movimento è tempo di virare sulla realpolitik, e pazienza se la coerenza andrà a farsi benedire. Insieme alle sentenze scolpite dal più amato dal popolo grillino: «L’Italicum? Per noi è uno schifo», twittava definitivo il 30 giugno Alessandro Di Battista, detto Dibba.
Inizio estate di quest’anno, non del 2014, quando pure la nuova legge elettorale fu partorita e loro, al termine di una lunga contesa parlamentare, scelsero l’Aventino pur di non votarla. Tuonando in coro contro «il Pregiudicatellum che è anche peggio del Porcellum: assegna i seggi “ad minchiam” e fa sì che il consenso dei cittadini possa non valere nulla».
Ma ora che far saltare il banco e prendersi il Paese è una possibilità concreta, baciare il rospo non sembra più un’idea tanto repellente. Anzi. A dettare la linea, più rapido di un falco, ci pensa come sempre il capo: «La cosa più veloce e realistica per andare subito al voto è farlo con una legge che c’è già: l’Italicum», ha indicato la strada Beppe Grillo a urne ancora calde. «L’abbiamo sempre criticata», mette le mani avanti, «ma questi partiti farebbero di peggio e ci metterebbero anni legittimando un governo tecnico alla Monti». Et voilà: siccome c’è sempre un motivo che giustifica l’inversione a U, il proporzionale puro proposto dal Movimento alla Camera solo a settembre è già diventato carta straccia, archiviato con un colpo di blog.
Insieme alle tante battaglie degli onorevoli a cinquestelle. I quali, prima di capire – complice il trionfo alle ultime amministrative – che proprio il ballottaggio fra le due liste vincenti al primo turno li avrebbe avvantaggiati, attirando come una calamita il consenso degli esclusi, hanno vomitato veleno e improperi sul sistema elettorale targato, almeno inizialmente, Renzi-Berlusconi. «È un obbrobio, nemmeno Mussolini osò così tanto», alzò le barricate Danilo Toninelli a gennaio del 2014. «È peggio del Porcellum!», si indignò Carla Ruocco sei mesi dopo.
Una litania ripetuta fino a questa estate, allorché il principio di realtà ha cominciato a farsi largo nelle fila pentastellate. Producendo però una serie infinita di giravolte, a seconda degli sviluppi del dibattito su eventuali modifiche all’Italicum. «Renzi è un baro da due soldi», urlò Grillo quando a giugno il premier aprì ai ritocchi in chiave proporzionale. La loro battaglia. Avrebbero dovuto sprizzar gioia da tutti i pori. E invece: «Non è una priorità», scolpì Luigi Di Maio.
Salvo ripensarci il 20 settembre: «Questa legge va cancellata tout court in quanto non è migliorabile, è antidemocratica e incostituzionale», scrissero i deputati 5s nella mozione anti-Italicum presentata alla Camera. Due capriole in 80 giorni. Che si moltiplicano con l’approssimarsi del referendum.
Sino al colpo di scena finale. Ieri, sul blog del capo, i senatori Crimi e Toninelli rinnegano il passato e spiegano che si può votare con l’Italicum anche al Senato: «È sufficiente aggiungere alcune righe al testo attuale». Ora che si può vincere il governo, l’odiata legge elettorale non resta solo in vita, raddoppia addirittura. Leo Longanesi lo aveva già detto: «Mai appoggiarsi troppo ai principi perché poi si afflosciano».