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 2016  dicembre 06 Martedì calendario

Eleonora e Vera, doppio ritratto per le muse di d’Annunzio e Blok

Eleonora Duse (1858-1924) e Vera Komissarzhevskaja (1864-1910) a confronto in una rassegna al Museo statale di Storia contemporanea di Mosca. A cura di Maria Ida Buggi e Marianna Zannoni, la prima; di Dmitry Rodionov, la seconda. Ed ecco due grandissime protagoniste del melodramma rivivere attraverso manifesti teatrali, costumi di scena (esposti in enormi bacheche cilindriche), ritratti, fotografie, abiti (di Paul Poiret di Parigi, della Magugliani di Milano, di Mariano Fortuny di Venezia). Ed ancora: lettere (della Duse alla figlia Enrichetta; di Anton Cechov alla sorella, dopo avere assistito a La signora delle camelie di Dumas-figlio, interpretata da Eleonora), cappelliere, grammofoni, separé con intarsi orientali, grandi specchi racchiusi da cornici dorate, guanti (di Harrods Glove di Londra), sigilli e timbri, passaporti, persino una lunga treccia posticcia. E altri oggetti provenienti da archivi, Fondazioni e musei italiani (Ca’ Foscari e Fondazione Cini, soprattutto) e russi (Museo del Teatro e della Musica di San Pietroburgo, Teatro Bakhrushin di Mosca). Proiettato anche l’unico film interpretato dalla Duse, Cenere (1916), tratto dal romanzo di Grazia Deledda. Il tutto, con la benedizione dell’Istituto italiano di Cultura di Mosca, diretto da Olga Strada.
La Duse e la Komissarzhevskaja si incontrano per la prima volta nel 1896 a San Pietroburgo, dove Eleonora (la «Divina»), 36 anni, ha già recitato nel 1891. Vera, 31, nutre una grande ammirazione per l’artista italiana di cui segue le orme, tanto da essere chiamata «la piccola Duse» (oltre a «Giovanna d’Arco delle scene russe»).
Che cos’hanno in comune le due dive? Apparentemente, poco; in realtà, moltissimo. Entrambe sono figlie d’arte, hanno esistenze sentimentali tormentatissime e riformano il teatro. Ed entrambe hanno ispirato due grandi poeti.
Ma andiamo con ordine. Il padre della Komissarzhevskaja, Eyodor, è un celebre tenore e il fratellastro, regista teatrale: i genitori della Duse, due attori girovaghi che recitano dove capita (tant’è che Eleonora nasce in una stanza d’albergo a Vigevano). A 17 anni, Vera sposa un pittore, il conte Vladimir Muravyov, che lascia dopo che l’uomo mette incinta la sorella. A 23 anni, Eleonora si unisce a Tebaldo Marchetti, un attore della sua compagnia, nasce la figlia Enrichetta, ma si separa subito dopo: ha 26 anni, nel 1884, quando frequenta segretamente Arrigo Boito. Lo lascia dieci anni dopo per Gabriele d’Annunzio: una relazione devastante («Lo detesto ma lo adoro»). Nel 1900, d’Annunzio pubblica Il fuoco dove racconta anche particolari intimi della loro storia e la donna trova la forza di rompere per sempre. Riformatrici del teatro, le due dive abbandonano i gesti ad effetto per interiorizzare tutto e concentrarsi sulla psicologia dei personaggi (il «teatro dell’anima», verrà definito).
Entrambe – che talvolta nel loro repertorio hanno le stesse opere o gli stessi autori – abbandonano le scene nel 1909. Vera per aprire una scuola di recitazione ed Eleonora perché in crisi esistenziale.
La «divina», però, è costretta a fare un passo indietro per questioni economiche (d’Annunzio, pieno di debiti, le ha prosciugato i conti). Muore in tournée a Pittsburgh il 21 aprile 1924 e viene sepolta ad Asolo, dove il pianista Svjatoslav Richter, quando vi soggiorna, porta ogni mattina una rosa rossa sulla sua tomba.
Entrambe cantate da grandi poeti, s’è detto. Per la Duse, D’Annunzio scrive libri e versi. Eleonora diventa l’Ermione de La pioggia nel pineto : «Non s’ode voce del mare. Or s’ode su tutta la fronda crosciare l’argentea pioggia che monda (...) Ascolta. La figlia dell’aria è muta; ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell’ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione».
Alla Komissarzhevskaja, morta nel 1910, a Tashkent, il simbolista Aleksandr Blok, considerato il più grande poeta russo dopo Puskin, dedica una celebre lirica. Il lettore italiano può ritrovarla nell’edizione di Guanda del 1975, tradotta da Angelo Maria Ripellino: «Venne nel tempo della mezzanotte al polo estremo, in una terra morta. Non le credevano. Non era attesa. Quasi non disgelasse, non soffiasse maggio. Non le credevano. Ma la sua voce giovane cantò piangendo della primavera, come se del vento toccasse le corde là sopra, ad un’altezza sconosciuta, come se ripiegassero gli inverni nel cielo dilaniato da tempeste, e come corde gli angeli piangessero, spandendo le ali sopra l’universo».
Fascino senza tempo di due giganti del palcoscenico.