Corriere della Sera, 6 dicembre 2016
Tra i sopravvissuti di Palazzo Madama. «Noi eravamo già qui ai tempi dei Romani»
ROMA Un passaggio nella sede del Cnel, in quella specie di magnifico resort tra i pini di Villa Borghese, si può fare più tardi. Tanto sembra che il brindisi ci sia già stato.
Te li puoi immaginare. Bottiglie di prosecco, bicchieri di carta, pasticcini. Novantuno impiegati sopravvissuti al referendum. Cin cin, grida di evviva, poca roba.
E poi comunque qui al Senato della Repubblica c’è sempre più sfizio.
Per dire: cammini nel salone Garibaldi, il transatlantico di Palazzo Madama, e senti il parquet scricchiolarti sotto le scarpe. Proprio lo senti. Perché sei da solo. Del resto è lunedì: e come sempre il lunedì trovare un senatore è piuttosto complicato (non a caso, la buvette apre solo a mezzogiorno).
Corridoio, scalinata, altro corridoio. Seduto alla sua scrivania, un commesso sta leggendo le pagelle della Roma sul Corriere dello Sport. Sbadiglia, poi alza la testa lentamente.
«Dottò, ieri un altro po’ e me sento male…».
Vittoria nel derby e vittoria del No.
«Ma la vittoria del No mi ha commosso. E mica perché in caso contrario avrei perso il lavoro: la riforma, come si sa, non prevedeva la chiusura del Senato, e noi saremmo tutti comunque rimasti qui, al nostro posto… La riforma avrebbe però trasformato il Senato, rendendolo un’istituzione più complicata e meno prestigiosa».
Lei pensa che…
«No, aspetti: ma che me dice de Strootman?».
Avvistati senatori del Pd di rito renziano (certi con sguardi di cera). Il capogruppo Luigi Zanda, Luciano Pizzetti, che della Boschi è ancora per poche ore sottosegretario, e poi Giorgio Tonini e Nicola Latorre.
Latorre dice che «quando gli italiani si esprimono, bisogna prendere atto. Certo bisogna anche avere la freddezza di capire se hanno votato solo contro la riforma o se, piuttosto, il voto è stato anche contro l’attività del governo».
Latorre è un pugliese furbissimo che, tanti anni fa, ai tempi di Massimo D’Alema premier, lavorò a Palazzo Chigi insieme ad altre teste pelate e raffinate – Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino: soprannominati i «Lothar» (D’Alema era Mandrake). E quindi, essendo furbissimo, Renzi non lo nominerebbe nemmeno se lo portassero a fare un giro a Guantanamo.
Più disinvolti, nell’evocazione di Matteo Renzi, al bar del personale: al piano terra, sotto il porticato.
Frammenti.
«Te lo ricordi quando Renzi venne a fare il suo discorso programmatico? Parlò tenendo le mani in tasca… Dai, non si fa». «Scusa: ma Renzi qui quante volte sarà venuto?». «Renzi voleva far credere agli italiani che trasformando questo luogo sacro, si sarebbero risparmiati milioni di euro…».
Su quest’ultimo argomento, riflessione del senatore Vincenzo D’Anna (biologo da Santa Maria a Vico, Caserta – verdinianos e amico di Nicola Cosentino detto Nick o’ mericano: «Povero Nick, è come Tortora»): «Non potrei rilasciare dichiarazioni perché noi di Ala dobbiamo prima capire bene che sta succedendo a Renzi… Però una cosa si può dire: ci siamo finalmente liberati dal sospetto che sono i senatori a incidere sui costi dello Stato. Gli italiani non credono a questa baggianata nella quale, per anni, i grillini hanno però inzuppato il pane…».
Sarebbe quasi ora di andare a fare un giro al Cnel: ma come si può rinunciare a sentire il senatore di FI Antonio Razzi?
«Gli italiani hanno capito che non si potevano chiudere duemila anni di storia… Pensi che già fin dall’antica Roma…».
Lo so.
«Lei, sì. Ma Renzi no! E allora gliel’hanno spiegato gli operai italiani…».
Che c’entrano gli operai?
«Hanno votato No soprattutto le vittime del Jobs act!».
Comunque, lei ha salvato il posto.
«Io? Ah ah ah! Ma io, se pure avessero trasformato il Senato, sarei andato bello e tranquillo in pensione con i miei 41 anni di contributi versati quando lavoravo in Svizzera… Anzi…».
Anzi cosa?
«In Svizzera ci sono centri benessere meravigliosi. Renzi dovrebbe andarsi a fare un bel mese di massaggi rilassanti».
Passano due tipi, uno alto e l’altro grasso. Quello grasso dice: «Sembra che la Serafin, questa mattina, fosse raggiante…». Quello alto: «E lo credo bene» (qui a Palazzo Madama c’è solo una Serafin: Elisabetta Serafin, segretario generale del Senato, 57 anni, un debole per Chanel e uno stipendio così ricco da essere avvolto nel mistero più fitto).
Ecco, adesso si può andare al Cnel, a Villa Lubin. Però, a pensarci bene: per trovarci poi cosa? Quello che si dovrebbe sapere, si sa: all’erario costa 20 milioni all’anno, ma in 60 anni ha prodotto solo 14 proposte di legge (e nessuna è diventata legge).
No. Inutile. Meglio andare in libreria a comprare l’ultimo libro di Don Winslow, L’ora dei gentiluomini (ha scritto di meglio, ma è sempre un bel regalo da portare a una cena).