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 2016  dicembre 05 Lunedì calendario

I cinesi a Hollywood il botteghino è l’arma per il «soft power»

L’ultima volta che il padrone del cinema è andato al cinema l’ha fatto solo per amore. Sì è bambini per sempre e anche il potentissimo Wang Janlin, 62 anni e 34 miliardi di ricchezza personale, ha dovuto accompagnare mammà a festeggiare al cinematografo i suoi 90 anni. «La pietà filiale è una virtù importante qui in Cina», dice Mister Wang all’Hollywood Reporter: che, per la cronaca e soprattutto per la finanza, è ormai una delle pochissime cose di Hollywood che non gli appartengono direttamente. Perché il fondatore di Wanda, il gigante dell’edilizia diventato colosso dell’entertainment, è davvero il padrone del cinema mondiale: prima ha acquistato le sale americane di Amc, poi della rivale Carmike e infine quelle dell’europea Uci & Odeon Cinema Group. Una scalata che dopo il via libera dell’antitrust Usa e Ue porterà l’Amc, cioè l’American Multi-Cinema ormai ribattezzabile in American Movies China, a diventare la più grande catena di cinema sparsa per (almeno) tre continenti.
La parabola di Wang Janlin, l’uomo che non ama andare al cinema ma il cinema lo possiede, riassume in sé l’incredibile ascesa di Pechino nell’intrattenimento: un matrimonio fino a poco tempo fa impensabile, quello tra un regime che ama dipingersi austero e il rutilante mondo dello spettacolo. Ma basta sfogliare la lista di nozze per accorgersi del contrario. Ci trovi i signori di Tencent, cioè gli inventori di WeChat, la superapp per messaggini, che si sono assicurati un colosso delle produzioni come IM Global: un affarone a tre realizzato insieme con la Tang Media Partners e soprattutto la Cmc di Li Ruigang, il cinese che già produce Ron Howard, regista pluri- Oscar nonché ex divo di Happy Days. Lo stesso Mister Li ha messo un piedino anche nella mitica Warner Bros. Mentre STX, lo studio fondato dal produttore della Pantera Rosa Robert Simonds, è sostenuto da Hony Capital, private equity made in China. Per non parlare della Lions Gate Entertainment, che al cinema ha firmato The Hunger Games e in tv la serie- cult Mad Men: e oggi prospera soprattutto grazie agli yuan convertiti in dollari della Hunan and Television Broadcast, che poi sarebbe a controllo statale.
Altri deal? Un ex boss sempre della Warner Bros, Jeff Robinov, s’è gettato nella sua nuova avventura, Studio 8, con il piccolo grande aiuto di Fosun, il gigante di Guo Guangchang, detto il Warren Buffett cinese, che dalla sanità all’industria possiede di tutto: compreso il Club Med, le Cirque de Soleil e i gioielli di Folli Follie. L’ultimo affare l’ha fatto una società di Shanghai, la Cultural Investment Holdings, alias CIH, pappandosi il 75% di Framestore, la fabbrica di “visual effects” fondata da quel Sir William Sargent che ci ha regalato le magie di Harry Potter.
Che succede? «Cosa cercano i cinesi a Hollywood?» se l’è chiesto Forbes. Dando una risposta che per la verità sfugge al profumo della sola pecunia sola: «Se a un americano medio date la possibilità di scegliere tra prendere 1000 dollari e promuovere la cultura dell’America, quello dirà ‘Dio benedica l’America’ e intascherà i 1000 dollari. Se lo chiedete a un cinese, quello rinuncerà ai soldi pur di promuovere la Cina». È la famosa teoria del soft power brandizzata da Joseph Nye: la guerra di oggi la fai anche, anzi ormai soprattutto, conquistando marchi e promuovendo stili di vita. Sarà. E certamente non è un caso che il solito Janlin, oltre ad avere comprato le sale Amc, ha investito 3,5 miliardi nella Legendary Entertainment che ha prodotto Godzilla e adesso per un miliardo s’è pappato la Dick Clark che produce i Golden Globe, gli American Music Awards e nientemeno che Miss America.
Aggiungeteci che l’ultimo business in cui ha lanciato la sua Wanda è quello dei parchi a tema che stanno insidiando le varie Disney World e il loro immaginario yankee. Aggiungeteci soprattutto che non solo è intimo del presidente Xi Jinping ma lui stesso siede nel comitato centrale del partito. Tirate le somme, e i sospetti di un’invasione di soft power si materializzano uno dopo l’altro. L’ha messo nero su bianco anche una commissione del Congresso invitando a frenare sulle acquisizioni in settori strategici come, c’è poco da ridere, la stessa Hollywood. Perché cosa avrebbe spinto a buttarsi nel cinema perfino un signore come Jack Ma, il patron di Alibaba, che con 32 miliardi di dollari in ricchezza è secondo solo a Wang Janlin? Il fondatore del bazar online più grande del mondo è sceso in soccorso dell’ex Dream-Works per salvare il soldato Spielberg (assediato dai debiti). L’assegno a Steven non sembra staccato più per la gloria, sua e della Cina, che chissà per quale strategia imprenditoriale?
Sì, tutto quadra. Ma quando poi scopri che l’ultimo shopping in California è andato a farlo la Xinke New Materials, che è un’azienda di Anhui specializzata in processori di rame, beh, allora è chiaro che l’investimento qui viene prima di tutto. Sarà per una familiarità con i materiali elettrici che Xinke ha trovato l’anima gemella nella Voltage, che vuol dire voltaggio, tensione? È la compagnia piccola ma agguerrita che ha vinto un Oscar raccontando appunto la guerra in Iraq con “The Hurt Locker” di Kathryn Bigelow. Per conquistarne l’80% ora i cinesi sono pronti a sborsare fino a mezzo miliardo di dollari. E per gli analisti il motivo è semplice: Xinke è una di quelle compagnie arricchitesi grazie al boom dei prezzi delle materie prime e visto che la festa è (quasi) finita la parola d’ordine è diventata diversificare. Magari proprio nel settore che entro il 2017 dovrebbe superare i 10 miliardi di profitti fatti registrare oggi negli Usa.
E adesso? E adesso non resta che attendere quello che una volta, anche al cinema, si chiamava il secondo tempo. Perché da una parte i cinesi hanno approvato una simpatica legge per richiedere che tutti i film “siano al servizio del popolo e del socialismo”: ultimo passo di quella stretta sulla libertà d’espressione imposta dal presidente Xi Jinping che i nuovi padroni cinesi sarebbero però costretti a seguire anche a Hollywood. E poi, come in ogni gran finale che si rispetti, anche qui è arrivato il colpo di scena: che porta il nome e il cognome ingombranti di Donald Trump. Da una parte all’altra del Pacifico, tutti si stanno già chiedendo che cosa succederà agli investimenti di Pechino ora che anche il presidente eletto americano ha promesso, come Xi, una sua stretta. Oh yes: il nuovo Mao contro The Donald. Non è un gran bel titolo per farci subito un bel film?