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 2016  dicembre 06 Martedì calendario

I mercati e la vittoria del No al referendum italiano

Il contraccolpo più preoccupante non si è verificato. I mercati hanno accolto – si potrebbe dire – con indifferenza la vittoria del No al referendum italiano e la conseguente, inevitabile caduta del governo Renzi. C’è stata una prima flessione anche dell’euro, ma nel corso della giornata le quotazioni si sono riprese e la moneta unica è tornata ai valori precedenti di 1,063 sul dollaro. Gli specialisti spiegano che ha avuto un effetto calmierante la vittoria di Van der Bellen in Austria, o meglio la sconfitta del quasi-nazista e antieuropeista Norbert Hofer. Gli specialisti spiegano ancora che i mercati, grosso modo, avevano già scontato alla vigilia la vittoria del No, vendendo tutto quello che era possibile vendere. Lo spread, alla fine di alcune oscillazioni, s’è attestato al livello di 165 (contro i 162 di venerdì). Avverte però Vincenzo Longo, di Ig Market: «Sarà l’evoluzione politica a dettare il ritmo nei prossimi giorni». C’è però una preoccupazione europea concreta. L’Eurogruppo riunito ieri mattina ha sottolineato che «il livello del debito italiano resta motivo di preoccupazione» e la manovra italiana che è «a rischio di non rispetto del patto», dovrà essere in qualche modo corretta da manovre aggiuntive. Delle reazioni dei mercati e dell’Europa parliamo più diffusamente altrove nelle nostre pagine, ma c’è intanto da registrare la nota del Quirinale giunta ieri sera al termine dell’incontro con Matteo Renzi che avrebbe dovuto ratificare le dimissioni del capo del governo. «Il presidente della Repubblica — si legge —, considerata la necessità di completare l’iter parlamentare di approvazione della legge di bilancio onde scongiurare i rischi di esercizio provvisorio, ha chiesto al Presidente del Consiglio di soprassedere alle dimissioni per presentarle al compimento di tale adempimento».

• Insomma, Renzi resta qualche altro giorno e, intanto, c’è soprattutto il problema delle banche.
Soprattutto di Monte dei Paschi, che cerca cinque miliardi e vale al momento 570 milioni. La previsione è che alla fine spetterà al governo intervenire nazionalizzando, naturalmente col permesso di Bruxelles.
• Quale governo?
Bella domanda. In questo momento, l’uomo in pole position è Pier Carlo Padoan. Ancora domenica sera si dava per sicura la sua partecipazione all’Eurogruppo di ieri a Bruxelles. Invece il ministro è rimasto a Roma e ha mandato a il direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via. Mossa indicativa. Che Padoan, il quale viene dall’Ocse, sia l’uomo preferito dall’Europa si deduce anche da questa dichiarazione di Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici europei. «Renzi è stato un buon premier, ha fatto importanti riforme sociali ed economiche. Abbiamo fiducia nelle autorità italiane. L’Italia è un Paese solido su cui possiamo contare. Padoan? È un uomo di alta qualità, ha dato credibilità all’Italia».

• Chi altri è in lizza?
Un neo nella candidatura di Padoan è che si tratterebbe dell’ennesimo governo tecnico. È chiaro che resterebbe in carica solo per il varo della nuova legge elettorale, e che poi manderebbe il Paese alle urne. Grillo vuole le elezioni subito (l’Italicum lo favorisce), Salvini forse, Forza Italia e Pd preferirebbero avere più tempo a disposizione. Se i dubbi su Padoan prevalessero, sarebbe forse l’ora di Pietro Grasso, il cui governo avrebbe caratura istituzionale. Padoan potrebbe tener tranquilli l’Ue restando al ministero dell’Economia. Però l’altra sera il giornalista Marcello Sorgi, palermitano come il presidente del Senato, si chiedeva se a Grasso converrebbe di retrocedere dalla seconda alla quarta carica dello Stato, per di più in un clima che non si annuncia per niente tranquillo. La fine del referendum non significa affatto la fine della guerra civile politica italiana.

• Qui avrà la sua parte Renzi.
Il premier ha incontrato Mattarella ieri mattina, in un faccia a faccia «senza giacca», cioè privo dei crismi dell’ufficialità. Ha poi convocato un consiglio dei ministri lampo e subito dopo è tornato, stavolta ufficialmente, al Quirinale per comunicare la sua decisione di lasciare. Mattarella, come detto, ha chiesto a Renzi di restare a Palazzo Chigi ancora qualche giorno, per condurre in porto la legge di Stabilità (potrebbe avvenire già domani, anche se Forza Italia e Sinistra italiana si sono dette contrarie a questa corsia preferenziale che conduca all’approvazione della manovra in tempi ridotti). Il presidente teme l’avvitarsi di una crisi al buio che porterebbe più facilmente alle elezioni anticipate. Il capo dello Stato vuole anche evitare il rischio che, con la legge di Stabilità, si vada oltre il 31 dicembre. Non si pratica l’esercizio provvisorio della nostra legge di Bilancio dai tempi del governo Goria (1987-1988). Il presidente avrebbe potuto rinviare Renzi alle Camere dove magari il premier avrebbe persino ottenuto un voto di fiducia. Sarebbe stato però un modo per complicare l’agonia. Quando un Paese, con quella maggioranza, boccia la parte più importante e significativa della tua attività di governo è inevitabile fare le valigie.

• Che faranno gli altri?
Passata l’euforia per la vittoria, gli altri, con l’eccezione dei cinquestelle, si troveranno in mezzo alle solite macerie. Salvini si intesta la vittoria, Berlusconi sostiene di aver spostato il 5% dell’elettorato. Per non parlare delle ambizioni di Parisi o della Meloni o di Toti. Nomi che ci ricordano quanto il centro-destra sia diviso al suo interno. Quanto alla sinistra del Pd, accantonato l’Usurpatore, non si sa bene che cosa potrà fare. Renzi resterà segretario o, più probabilmente, domani in Direzione metterà a disposizione la carica. I nomi che si fanno per l’eventuale successione (Martina, Orlando) sono di figure all’apparenza non in grado di rilanciare il partito.