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 2016  dicembre 04 Domenica calendario

La Butterfly nel mini teatro della Brianza

Dove sorgeva la chiesa di Santa Maria alla Scala a Milano, fu costruito e inaugurato nel 1778 il Teatro alla Scala. Dove sorgeva il vecchio mobilificio della famiglia Belloni a Barlassina, paese in provincia di Monza e Brianza, è stato inaugurato nel 2010 il Teatro Antonio Belloni: con cento posti è uno dei teatri d’opera più piccoli del mondo, una riproduzione in miniatura della Scala. Come l’originale ha una stagione lirica, un’Accademia e in programma Madama Butterfly di Giacomo Puccini, nella prima versione, quella dei fischi, dei boati e dei grugniti, andata in scena il 17 febbraio 1904 proprio al Teatro alla Scala. “Milano è l’inferno”, disse la moglie del compositore, mentre lo stesso Puccini scrisse in una lettera all’amico Camillo Biondo, «Non ascoltarono una nota quei cannibali. Che orrenda orgia di forsennati, briachi d’odio. Ma la mia Butterfly rimane qual è: l’opera più sentita e suggestiva ch’io abbia mai concepito. E avrò la rivincita, vedrai, se la darò in un ambiente meno vasto e meno saturo d’odi e di passioni». Così, oggi, quell’ambiente è a ventisette chilometri esatti da piazza della Scala, in un teatro progettato nell’arco di dieci anni e costruito a mano da un figlio, Marco Belloni, in memoria del padre, Antonio, perso all’età di venticinque anni. Da lui ha ereditato l’amore per la lirica, insieme a tavola cantavano la Cavalleria rusticana, e l’impresa di famiglia che da fine Ottocento realizza mobili artigianali. Qualche ora prima dello spettacolo passeggia nella sede della nuova fabbrica, tra saloni imperiali e camere da letto, foglie d’oro in resina e petali di rose scolpite nel legno, in un labirinto di arredamento infinito. Si racconta, «L’idea iniziale era di creare una sala ricevimenti per i clienti mettendoci un pianoforte. Poi ho fatto la buca per l’orchestra. Poi mi sono detto – Perché non facciamo anche il palcoscenico? – e alla fine è nato il teatro». Le porte si aprono alle 19:30. Una coppia in pensione arriva da Seregno. Lui dice, «Sono dell’ambiente, faccio il falegname». Un altro spettatore ha lavorato per più di vent’anni con Belloni, il palcoscenico si può dire che sia suo, «Tutto il legno di noce qui l’ho tagliato io». Su un divanetto è seduto un abbonato. È del 1927 e si sta facendo fotografare per postare la foto su Facebook, dove ha sette amici. Intanto nel corridoio che porta ai camerini si aggira l’Ufficiale del Registro, un amico d’infanzia di Marco Belloni. «Durante lo spettacolo devo stare in piedi senza dire niente. L’anno scorso ho recitato in un’altra opera, lì ho detto quattro parole». In silenzio il pubblico attende in sala. Nel palchetto centrale, insieme alla moglie Angela, siede il Fitzcarraldo brianzolo. In quello accanto, al banco mixer, c’è il figlio Giovanni: abbassa le luci, alza il volume di un microfono. «Buonasera e benvenuti al Teatro Antonio Belloni». Entra in scena il sovrintendente, direttore artistico e musicale Andrea Scarduelli. Un uomo del Rinascimento in smoking. Un passato da discografico, specializzato nel recupero delle prime registrazioni di artisti come Caruso e Maria Callas. Introduce ogni spettacolo, narrandolo. Un cerimoniere di corte, un prestigiatore che meraviglia con aneddoti e facendo comparire il primo spartito approvato da Puccini poco tempo prima del debutto, «Questo è l’atto secondo ed è una riduzione per canto e pianoforte – spiega – Non eseguiamo quest’opera senza orchestra per risparmiare ma perché la prima Butterfly si può fare solo con il pianoforte. Puccini ritirò la partitura, che non fu mai più eseguita in questa versione, e nessuno può sapere con certezza come la orchestrò. Un grande teatro porterà in scena quest’opera ma si tratterà di una versione basata su questo spartito. Puccini scriveva per il pubblico, questa Butterfly l’aveva scritta per se stesso». Si alza il sipario, rivelando farfalle colorate che si rincorrono su paraventi blu cobalto. Goro, il tenore Livio Scarpellini, avanza a inchini e passi felpati, con una maschera di cerone bianco porta il teatro in un vaudeville, in un palco misterioso. Scarduelli, senza giacca e con il papillon slacciato, fa la comparsa, è uno dei servi, e poi torna a dirigere da dietro le quinte. Il teatro stesso fa parte dell’opera, ci si distrae dalla trama perché si segue quella del luogo. Ci si gira, guardando le vele e i drappi color panna che montano alle pareti e le chiome degli spettatori, un manto biondo e bianco illuminato a tratti dai milleseicento led sul soffitto che fanno calare la notte su Nagasaki. E anche se non ci sono flauti, corni e tamburi, c’è tutto. Cio-cio-san, una geisha, poco più che bambina, sposa Pinkerton, un ufficiale di marina americano che ritorna in patria lasciandola con un figlio. Tornerà a Nagasaki tre anni dopo, quando l’apparizione della nave Abramo Lincoln illuderà Cio- cio- san un’ultima volta, prima di pronunciare le sue ultime parole al figlio, “Va, gioca”, e togliersi la vita. «Credo che questa prima versione sia molto più interiore – dirà a fine rappresentazione Lucrezia Drei, la Madama Butterfly inedita, dal carattere e dalla voce non di un soprano spinto ma leggero – Se noi togliessimo tutti i personaggi e mettessimo questa ragazza in un manicomio, a immaginarsi tutto, funzionerebbe perfettamente. Questo è il suo dramma». I commenti del pubblico all’uscita diventano una sola recensione, «Un’occasione bellissima. Abituati a vederla diversamente, questa è stata secondo me più toccante, sembrava che soffrisse davvero. Mi sono divertito così tanto che ho pianto tutto il tempo». Le porte del Teatro Antonio Belloni si chiudono. In via Cristoforo Colombo a Barlassina si spengono le luci e, proprio come in un quadro teatrale, sembra scomparire e tornare a essere una delle altre villette familiari che ci sono nella strada. Pioviggina. Ogni spettatore, mettendosi a letto, penserà alla frase di commiato del direttore artistico, «Vi salutiamo, vi ringraziamo. Siete stati tra i quattrocento spettatori della prima Madama Butterfly».