Robinson, 4 dicembre 2016
Storia della Prima. Dal 1951, il 7 dicembre l’opera apre la stagione. Ma c’è un altro spettacolo in scena. Nel foyer
Gran subbuglio tra l’intellighenzia della città, quella abituata a brillare nel foyer della Scala a Sant’Ambrogio, rincorsa dalle croniste in paillettes: il consueto invito non è arrivato e i tempestosi tentativi di offrirsi alla mondana serata come indispensabili presenzialisti non hanno scalfito i silenzi del cerimoniale. Insomma chi vuole esserci (ma ormai la serata è esaurita da tempo), avrebbe dovuto comprarsi un biglietto a 2.400 euro o trovarsi uno sponsor. Tanto i più importanti personaggi della città purtroppo non ci sono più, né Umberto Eco, né Umberto Veronesi, né Gae Aulenti: pure Valentina Cortese, che era la più assidua, non esce più di casa. Per la prima volta in molti anni, cambiano i protagonisti degli intervalli tra un atto e l’altro dell’opera inaugurale: via la cultura, avanti la finanza, poca Milano, molto mondo.
Immaginando graditi e necessari contributi, gli inviti sono stati dirottati giustamente al centro delle nuove ricchezze: magnati russi, banchieri svizzeri, industriali tedeschi, potentissimi cinesi, e giapponesi, più naturalmente i generosi sponsor italiani. Scala, Butterfly, Chailly e 7 dicembre hanno un richiamo fortissimo anche tra i neofiti di fortune incalcolabili: i due foyer, purtroppo nel solo intervallo imposto dalla prima edizione dell’opera scelta dal Maestro, si riempiranno di nuove sconosciute celebrità del denaro oggi trendissime. L’inaugurazione della stagione scaligera è la sola al mondo ad avere questo richiamo, questa solennità, questo segnale di mondanità e politica, di successo e opulenza, di grande spettacolo e promozione sociale a cui milioni di persone vorrebbero assistere soprattutto mostrandosi: non tanto per le meraviglie dell’opera che ormai la si vede in contemporanea ovunque, su Raiuno, nelle carceri milanesi ( l’ex sindaco Pisapia sarà a San Vittore con sua moglie Cinzia Sasso), in ogni anfratto cittadino. Ma proprio lì, nei palchi, soprattutto di seconda fila anche se non in quello presidenziale, in platea, nell’intervallo su e giù nei saloni di marmo tra i busti dei grandi compositori.La Scala, che si chiamava Regio Ducal Teatro, fu inaugurata nel 1778, il 3 agosto, con un’assoluta novità, L’Europa riconosciuta di Salieri: e Pietro Verri descrisse la magnificenza del teatro e del nobile pubblico, mentre poi Stendhal ricordava che nei palchi, tutti di proprietà privata, si ricevevano gli amici e “si scommettevano dei sorbetti che sono divini”. Insomma, il foyer non aveva ancora alcun fascino e ruolo: nei palchi di cui solo i proprietari avevano la chiave, a parte i sorbetti e il gioco d’azzardo, si faceva anche l’amore. Se è per questo Franco Pulcini, direttore editoriale del teatro, nel suo giallo Delitto alla Scala assicura che lo si fa ancora: forse non proprio il 7 dicembre, visto che i palchi, non più privati, sono zeppi di pregiati abiti scuri e scollature, soprattutto attempati. In passato l’inaugurazione della stagione non aveva una data fissa, sino a quando si scelse il 26 dicembre, Santo Stefano. Ma poi cominciò la smania delle vacanze natalizie che facevano disertare la Prima, e finalmente nel 1951 Victor De Sabata fissò la data a Sant’Ambrogio, il patrono di Milano, il 7 dicembre: con i Vespri siciliani di Verdi e Maria Callas ancora grassoccia e sconosciuta. Per appassionato e colto sadismo musicale, la noiosa opera settecentesca che aveva inaugurato l’allora Regio Ducal Teatro, fu scelta da Riccardo Muti per il 7 dicembre 2004, quando si celebrò finalmente il ritorno della Scala nel suo teatro risanato, dopo tre stagioni di esilio all’Arcimboldi, nel buio deserto periferico della città, dove prima c’era la Breda con le sue migliaia di operai, sostituita dal nuovo gran teatro dell’architetto Gregotti, da centinaia di poliziotti e uno sparuto gruppo di giovani medici contestatori.
Mal gliene incolse all’allora premier Silvio Berlusconi, che spuntava per la prima volta dal palco presidenziale assieme all’ancora sua signora Veronica. Deve essere stata un’esperienza tremenda se poi negli anni successivi ha sempre declinato. Del resto era già successo nel 2003, già presidente del Consiglio, sia perché c’era l’idea insormontabile di arrivare all’Arcimboldi per il Moïse et Pharaon di Rossini, sia perché l’ancor vegeta mamma Rosa aveva voluto farsi accompagnare al Manzoni, teatro di famiglia, in cui il divo Mediaset Marco Columbro recitava nel certo meno sublime Funny Money. Invece la signora Veronica apparve in platea accanto all’allora ministro Bondi all’inaugurazione del 2008, per un Don Carlo verdiano.
È impressionante come, ricordando lo scorrere delle inaugurazioni con le immagini del palco presidenziale, si capisca la confusione e l’invincibile instabilità politica dell’Italia. Presidenti della Repubblica, come Gronchi, Segni ( in carica solo due anni) e Pertini talvolta, più assidui Ciampi e soprattutto Giorgio Napolitano e signora, noti melomani. Premier e ministri in rapida successione, nel vorticare sinistro dei nostri governi; nomi, facce e poteri, alcuni ritornati presto nell’ombra, a rimuginare l’antipatico destino. Il prossimo Sant’Ambrogio ci sarà a onorare la Butterfly il pacificante presidente Sergio Mattarella: Renzi è stato invitato ma non ha ancora risposto, perché molto dipende dai risultati del referendum, che si sapranno questa notte. Ma in ogni caso si teme che fuori nella piazza irraggiungibile dai milanesi non diretti, a piedi, al teatro, pur presidiata anche sui tetti dai poliziotti in tenuta antisommossa, potrebbe esserci il casino, si spera innocuo, di inneggianti arrabbiati e deploranti arrabbiati, come non se ne vedeva da un po’. Come se la povera Butterfly pucciniana, la geisha quindicenne usata e abbandonata dall’antipatico americano, dovesse pagare non solo per il suo eventuale peccato d’amore, ma anche per i risultati di una campagna referendaria che ha stremato l’Italia.
E dentro, una volta che gli occupanti di poltrone e palchi saranno riusciti a raggiungere il foyer più famoso del mondo, quale sarà la visione d’insieme? Toccando ferro, si può ricordare il bel racconto di Dino Buzzati, Paura alla Scala: una serata di gran gala, il teatro assediato tutta la notte dall’annuncio di una sommossa misteriosa. Oppure se ottimisti, scoprire la simpatica canzone del quartetto Cetra, In un palco della Scala, molto cliccata su YouTube: “Nel gennaio del novantatré, spettacolo di gala, signore in décolleté discese da un romantico coupé, quanta e quanta gente nella sala, c’è tutta Milano in gran soirée…”.
Si sa che l’inaugurazione della stagione lirica vuole dire, anche per le signore più colte, come ci si veste, sobrie ed eleganti e quindi ignorate dai cronisti, impellicciate e luccicanti e subito pubblicate da Chi con nome di eventuale stilista. Ci sono molto spesso melomani insospettabili come Valeria Marini sempre con diverso cavaliere, e naturalmente una star come Carla Fracci, si sono visti primi ministri e presidenti del Togo e dell’Albania, della Slovenia e della Croazia, ma anche, però non alla prima, la Regina Elisabetta e consorte e in tempi ormai antidiluviani il principe Carlo con la giovanissima Diana e ancor prima Elizabeth Taylor ai tempi della sua massima bellezza, avvolta in colbacco e pelliccia bianchi. Alla prima poi, nel ’59, la Begum, l’anno dopo Grace Kelly col marito principe Ranieri e il sarto Balmain avvolto in un mantello come Il fantasma dell’opera. Nel 1971 Wally Toscanini accompagna Joséphine Baker, nel 2005 appare Isabelle Huppert, l’anno dopo Fanny Ardant che ha interpretato la Callas in un film di Zeffirelli.
L’inaugurazione della stagione è una serata in cui si parla di tutto ma poco dell’opera ( poi il loggione fischia), tanto più che quest’anno la si sta raccontando da mesi, così pare di averla già vista e sentita. Poi restano sempre nell’aria il livore e le lotte e gli sgarri e le trappole che da sempre governano il meraviglioso teatro: dopo il grande Paolo Grassi, dopo Badini, dopo Claudio Abbado direttore musicale dal ’72 all’86, sono diventati roventi i duelli tra il sovraintendente Fontana, anche lui di impronta socialista come i precedenti, e il direttore musicale Riccardo Muti (’ 86- 2005) sempre sul podio (forse solo il grande Gianandrea Gavazzeni, pure direttore musicale per qualche anno ha diretto più opere di lui). Via sia Muti che Fontana c’è stato l’arrivo di Meli sopportato solo qualche mese, poi un sovraintendente straniero, il francese Stéphane Lissner, non manovrabile dalla nostra politica, odiatissimo dai patrioti desiderosi di mettersi al suo posto; dopo anni belli molto contestati e finalmente sul podio direttori di tutto il mondo, è stato chiamato da Hollande a occuparsi dei teatri d’opera parigini. Infine, svicolando dai furibondi pretendenti italiani e dalle manovre poltronistiche di politica locale e nazionale, lo ha sostituito l’attuale sovraintendente, l’austriaco Alexander Pereira, impegnato soprattutto adesso a raccogliere denaro privato per sopperire a quello pubblico.
Ma nulla cambia da noi, neppure nel più prestigioso teatro del mondo: infatti c’è, come si dice, chi continua a tramare nell’ombra. Poi naturalmente c’è l’uso social politico del 7 dicembre esploso quasi cinquant’anni fa, con Capanna e i ragazzi di allora che gettavano uova marce sugli abiti di signore incolpevoli e gridavano, innocenti e sbagliandosi di grosso, “Approfittatene borghesi, è la vostra ultima serata!”. Da allora, ogni tanto protestano disoccupati o licenziati, o centri sociali o alternativi o antagonisti o altro, sempre più flebilmente. Ormai si è capito che ci vuole altro per cambiare il Paese, e non se ne è ancora vista traccia.