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 2016  dicembre 03 Sabato calendario

Il mercato del petrolio ha la «febbre da Opec»

Potrebbe non essere facile per l’Opec mantenere tutte le sue promesse: un taglio della produzione di petrolio di 1,8 milioni di barili al giorno, di cui 600mila a carico della Russia e di altri paesi esterni al gruppo. Ma il vertice di mercoledì ha già cambiato faccia ai mercati petroliferi (e non solo a questi). L’effetto più vistoso è stato sulle quotazioni a breve del greggio: il Brent ha superato 54 dollari al barile, un record dall’estate 2015, registrando un rialzo settimanale di oltre il 15%. Per ritrovare un rally così bisogna tornare all’inizio del 2009, quando la stessa Opec aveva reagito al crollo dei mercati finanziari e all’avvio della recessione globale con una super-riduzione dell’output, addirittura 4,2 milioni di barili al giorno.
Dopo il vertice di mercoledì è tuttavia successo qualcosa di ancora più significativo: per la prima volta da due anni – ossia da quando il petrolio ha iniziato a crollare, sotto il peso di un’enorme surplus di offerta – la curva dei futures ha cambiato inclinazione. Il greggio Wti per consegna dicembre 2017 adesso costa meno di quello per dicembre 2018. L’improvviso passaggio in backwardation, come si dice in linguaggio tecnico, è significativo perché segnala (e allo stesso tempo sollecita) il futuro smaltimento delle scorte. Proprio quello che l’Opec voleva ottenere, anche se – a onor del vero – le scadenze lontane del petrolio potrebbero essere finite sotto pressione per effetto di un’accelerazione delle vendite a termine dei produttori di shale oil, che in questo modo si sono acquistati una “polizza” a protezione delle entrate future e quindi un miglioramento delle attese di sopravvivenza.
Di certo il vertice di Vienna ha innescato un’attività frenetica sui mercati petroliferi, in gran parte generata da fondi di investimento costretti a riposizionarsi dallo stravolgersi di ogni scenario di aspettative. I volumi di scambio hanno battuto ogni record, sia all’Ice dov’è quotato il Brent, sia al Nymex dove c’è il Wti: sulle due borse mercoledì è passato di mano l’equivalente di quasi 4 miliardi di barili di greggio, contando solo gli scambi di future. Si tratta di barili di carta, beninteso. Ma se fossero veri per estrarli ci vorrebbe un mese e mezzo (e tutti i giacimenti del mondo).
L’attività sulle opzioni – contratti più complessi, ma anche più economici da scambiare rispetto ai future – è impazzita. In particolare i contratti call che pagano se il Wti raggiunge 60 dollari sono andati a ruba, col numero di posizioni aperte più che triplicato: da circa 30mila contratti lunedì a oltre 100mila mercoledì, secondo un’analisi di QuikStrike su dati Cme Group.
Piccoli e grandi investitori hanno preso d’assalto anche le azioni delle compagnie petrolifere. E un Etf in particolare ha battuto ogni record: l’Spdr S&P Oil & Gas Exploration and Production – che si concentra sulle società dell’upstream americano, senza includere le major, ha registrato flussi di oltre un miliardo di dollari giovedì, più del doppio rispetto al suo precedente record e circa mille volte il suo flusso medio giornaliero.
L’Opec deve ancora passare dalle parole ai fatti. E ci sono diversi motivi per pensare che il percorso potrebbe rivelarsi accidentato. Ma chiunque estragga petrolio – che siano i sauditi, Big Oil o i fracker americani – un po’ di profitti li ha già portati a casa.