la Repubblica, 5 dicembre 2016
Mucche, bellezza e don Camillo. «Così viviamo sul tetto d’Europa»
L’uomo che senza volerlo guarda l’Europa dall’alto in basso, alle nove è ancora a letto. Fuori dal suo maso il sole bianco finisce di bruciare l’erba nocciola e anche il ghiaccio si riscalda. La prima neve è già dura, i prati sono pettinati. Le montagne sono di nuovo azzurre, spuntano sopra i larici rossi: adesso anche loro sono pronte per l’inverno. Il mondo a “Cesa Veglia” è perfetto: solo silenzio, l’odore dolce del letame e del freddo.
Ennio Rodigari ha 62 anni e lunedì si è rovesciato con il trattore. Mezza ruota più in là e si sarebbe fermato in fondo alla costa. Un miracolo: lividi sparsi, stranamente non è morto. Per questo oggi non è sceso in stalla dalle sue dodici mucche. A mungere e al fieno hanno pensato la moglie Giusi e il figlio Cristoforo, 27 anni, casaro. Nessuno, tra Capo Nord e il Mediterraneo, vive tanto in quota. È un primato impegnativo, ricco di conseguenze, non un vezzo. La frazione si chiama Eira, 2210 metri, sopra Livigno, 20 abitanti al confine tra Italia e Svizzera. Poco sotto vivono solo i 35 contadini di Juf nei Grigioni (2126 metri) e quelli di Saint Véran nelle Alpi francesi. Non è vero che la gente, in alta montagna, parla poco. La lasciano parlare poco, non l’ascoltano: è diverso. Ma un giorno assieme alla famiglia che resiste nel cielo sopra l’Europa, insegna molto. La semplicità, prima di tutto, la serietà e una inesportabile felicità. Nessuno si lamenta, la regola è aver fiducia. Poi, una storia unica da raccontare. È quella di chi, come capita ai pescatori nel mare, rispetta la natura senza averci pensato: lo spettacolo grandioso del mondo è un’abitudine, la necessità da secoli diventa amore.
A Eira non c’è mai stata scelta e la realtà non la cambia nemmeno Google. Tutti contadini, parenti ed ex emigranti. Fino a mezzo secolo fa, bestie a parte, c’era il contrabbando. Poi, con lo sci, il commercio ha cambiato nome: negozi, sul fondovalle gli alberghi. «Caricavamo la “bricòla” sulle spalle – dice Ennio – 35 chili di sigarette e di whisky, dieci ore di cammino fino a Isolaccia, sopra Bormio. Dieci viaggi a stagione per acquistare un cavallo. Non c’era polenta per tutti, chi non faceva il portatore finiva in Svizzera a costruire ferrovie». Così a Eira, quando la televisione parla di banche e di rifugiati, ancora ridono. Fuori sono già dodici gradi sottozero, fanno economia da quando sono nati, i soldi servono per le mucche, ognuno è tornato dopo essere andato via. Se non avessero sempre contato il centesimo non sarebbero sopravvissuti e non esisterebbe la bellezza sparsa su ogni pietra.
«Non conosco l’Italia – dice Rinaldo, padre di Giusi – faccio il pastore sul Chestelèt da quando avevo sette anni. Mi pare che in basso ci sia confusione, che tutti abbiano paura di qualcosa. Da lavorare invece ce n’è, basta volerlo, la terra non abbandona». A impressionare la gente di Eira, mesi fa, è stata una gita nel Vicentino. Al posto dei campi, dove c’erano stalle da cento vacche l’una, hanno messo giù asfalto e parcheggi per i camper. Vedere la pianura, dove tutto è comodo, ridotta così, ha fatto male. Non perché sui pascoli viva gente superata: il problema qui è che ogni cosa deve stare al suo posto e che «chi vive sotto non vede il male che fa esagerare».
Nelle stalle, dopo pranzo e di sera, si parla ancora e si gioca. Il mito, dai Rodigari, resta don Alessandro Parenti, per quarant’anni parroco a Trepalle. A lui e allo storico sindaco Vitalini si è ispirato Giovanni Guareschi per creare don Camillo e Peppone. Gli originali sono vissuti sul monte Mottolino, non sulle rive del Po. «Mia zia Sabina e la Dorotea – dice Ennio – erano le perpetue di don Parenti. Comandavano loro. Hanno portato l’elettricità e l’acqua corrente, aperto il refettorio scolastico. Anche loro tenevano le bestie e, d’accordo con i finanzieri, facevano il contrabbando in cambio di patate e di farina. Siamo cresciuti grazie alle Marlboro trasformate in patate da don Parenti, spedito qui per una colpa rimasta segreta».
Non si lascia andare ai ricordi per nostalgia. L’uomo aggrappato al tetto d’Europa vuole dire che il progresso, per essere tale, deve essere una cosa concreta gestita da persone generose. Non è mai marginale: una patata può essere usata bene o male, ti salva ancora e la bontà non giudica le colpe degli uomini. Prendere il latte dalle vacche e “segare” i prati, per dirne una, resta qualcosa di immenso. Sembra impossibile, ma in questa casa a 2210 metri, il prodigio invisibile che contribuisce a salvare tutti si consuma da sempre e due volte al giorno, mungendo, grazie a persone non illustri che rispettano le mani senza distinguere la sapienza dall’osservazione. «Entro in stalla alle cinque di mattina – dice Giusi – e finisco alle dieci di sera. Da luglio a settembre seghiamo, raccogliamo fieno, facciamo legna per scaldarci tra ottobre e giugno. La felicità è fare con pazienza ciò che occorre per vivere, passando ai figli sia il bisogno che la bellezza».
La notte anche in dicembre a Eira sale più tardi. Resta a lungo sospesa sopra le neve rosa. «La crisi – dice Cristoforo – non capiamo cos’è perché il troppo ci è rimasto lontano. Nemmeno il referendum che divide l’Italia capiamo cos’è: il destino non può dipendere da un sì e da un no». Questo maso non è solo il luogo abitato più in alto d’Europa. È anche il più moderno. Forse chi sta solo con il necessario possiede la leggerezza che lascia guardare lontano.