Libero, 5 dicembre 2016
«La mia nuova vita con le mani di un’altra». Intervista a Carla Mari
Le mani forti di Carla. Che accarezzano la figlia e si perdono tra i suoi capelli. Che cercano conforto tra gli oggetti di casa e danno il segno di pace quando si siede in chiesa. Le mani di Carla. Che erano di un’altra donna ed ora sono sue.
Come sta Carla?
«Bene, sono solo stanca di parlare del passato. Vorrei guardare oltre»
Un trapianto di mani è qualcosa di raro.
«Lo so bene...e mi sento fortunata»
Lei ce l’ha fatta.
«Penso che qualcuno lassù mi abbia aiutato a non mollare e a trovare la forza di ricominciare ogni giorno».
Perché si tocca sempre le mani?
«Lo facevo anche prima del trapianto, è un’abitudine».
Le dà fastidio che gliele guardi?
«Mi dà fastidio l’attenzione morbosa».
Imbarazzo mai?
«Mi imbarazzavano le protesi».
Tutto comincia, o precipita, nel 2007.
«Con un’infezione renale asintomatica. Non avevo febbre e bruciore, solo qualche dolore. Vivevo però una situazione di stress esagerato e se non si sta bene psicologicamente anche il fisico ne risente».
Fu ricoverata.
«E in ospedale pensarono a una colica renale, il problema era che non c’erano calcoli. Purtroppo il giorno dopo ero già in terapia intensiva con diversi organi compromessi. Era un’infezione ai reni causata da un batterio che colpisce molte donne».
Cosa le hanno fatto?
«Per alzare la pressione e prevenire collassi mi hanno somministrato dei farmaci vasocostrittori la cui funzione principale è restringere vene e arterie per permettere al cuore di pompare meglio. I restringimenti nelle vie periferiche, però, sono stati importanti. Mani e piedi sono andati in cancrena».
Un precipizio rapido.
«Il 28 maggio venivo ricoverata. Il 21 luglio mi amputavano mani e piedi».
Neanche il tempo di prepararsi.
«Non c’era bisogno, vedevo i loro sguardi quando venivano a medicarmi. Un giorno si presenta il medico della terapia intensiva e mio marito mi guarda serissimo. Prima ancora che uno dei due proferisse parola ci pensai io: “Beh dai,senza mani e senza piedi resto comunque la Carla di prima”».
Non era disperata?
«Ma no... guardavo il cielo e dicevo: il primo miracolo l’hai fatto e mi hai tenuto in vita. Il secondo l’hai fatto e mi hai lasciato la testa che funziona. Non ti chiedo il terzo di salvarmi mani e piedi mi basta esserci ed essere d’aiuto alla mia famiglia con la parola. Perché è questo che conta più di tutto. Più del fare, del guidare, del cucinare. Conta parlare a chi ti vuol bene. E per mia figlia che allora era adolescente era tutto. Non potevo smettere di parlare con lei. Per questo non ero depressa o disperata. Ero felice di esserci».
Com’è stata la vita senza mani?
«Una vita piena di problemi pratici. Non è questione di riuscire a fare una cosa oppure un’altra, ci sono molte azioni che puoi compiere anche con le protesi. Il problema semmai era la mia completezza. Avevo solo 49 anni e mi sentivo “disabilitata”, non disabile. Pensavo a me come persona non finita, ero io ma fino a un certo punto».
Difficile gestire le protesi?
«Le protesi aiutano ma dipendi dagli altri. È una menomazione pesante ma il problema, più che psicologico, è di ordine pratico. Hai bisogno sempre di qualcuno che ti aiuti a indossarle. Sei distesa in un letto e finché non sei “rimontata” sei in balia degli altri».
Ha sempre creduto nel trapianto?
«Non l’ho mai chiesto, non ho mai neppure osato pensarci o illudermi perché mi consideravo già avanti con l’età».
E dopo un anno è arrivata la proposta dal professore Massimo Del Bene del San Gerardo di Monza.
«E ho accettato subito. La preparazione è stata lunga. Dovevano capire se gli organi erano a posto, se dal punto di vista psicologico ero pronta ad affrontare tutto daccapo. Il dolore, l’immobilità, la riabilitazione...».
Cosa fa con le sue nuove mani?
«Ho adeguato il cervello alla nuova situazione all’istante ma non faccio più tutte le cose che facevo un tempo. Mi piacevano il bricolage, l’uncinetto, cucire. L’ago riesco a tenerlo in mano ma non potrei fare di più. Poi sa, sono una pentola a pressione pronta a sprigionare ventate di vapore, l’energia non mi difetta. Ho persino imparato a lavorare la creta e l’argilla. Ma le confesso che dopo un primo periodo passato a verificare fin dove potevo arrivare in tutto, adesso mi sono calmata molto, faccio meno cose e penso più ad arricchirmi intellettualmente».
Cosa faceva per mettersi alla prova?
«Beh riuscire a mangiare e a lavarmi da sola era già un successo. Sono una persona semplice, non mi trucco, ma come tutte le donne ci tengo molto ai capelli. Il parrucchiere te li fa in un modo e tu magari li vuoi in un altro. Una delle prime cose che ho fatto con le nuove mani è stato pettinarmi da sola».
Le manca il lavoro?
«Ho 58 anni e quando ho dovuto lasciare avevo 33 anni di carriera alle spalle, potevo tranquillamente andare in pensione. No, non mi manca».
Ha paura Carla?
«Paura no. Non ho mai avuto paura né prima né dopo il trapianto anche se c’era scritto chiaramente nel contratto firmato con l’ospedale che qualcosa sarebbe potuto andar male. Semmai ho paura di fare certe cose...».
Per esempio?
«Mi tengo alla larga dai coltelli e dall’acqua bollente».
Le piacciono le sue mani Carla?
«Mi sono piaciute subito, le ho sentite subito mie. Mi sono sembrate il dono enorme di un angelo, e ho pensato che dovevo fare di tutto per farle funzionare bene. Con un trapianto di cuore è più facile non pensare a quel che ti è successo perché il cuore nuovo lo porti dentro dite. Le mani le vedi e le hai sott’occhio sempre».
Le guarda spesso?
«Le controllo con occhio clinico. Verifico il colore, se sono calde o fredde. Non sono come le mie, le mie erano nodose e maschili queste sono un po’ più paffutelle e femminili, e d’estate si abbronzano di più perché io ho la pelle molto chiara».
Gioielli li porta ancora?
«Mai anche perché mi dà fastidio mettermi in mostra. E poi dovrei fare allargare tutti gli anelli che ho».
E la fede?
«Anche la fede non va più bene. L’ho messa in un cassetto e lo ha fatto anche mio marito».
Quanto l’ha aiutata la famiglia?
«Mi ha aiutato più materialmente che psicologicamente. Sanno che ho la testa dura e che quando ho qualche momento di difficoltà sono io che faccio forza a loro».
La sua vita con le mani di un’altra... cosa sa di lei?
«Niente, mi hanno detto che aveva pressappoco la mia età e che ha avuto un’emorragia celebrale. Ci sono leggi in Italia che impediscono di conoscere il donatore, certo potrei fare un appello alla famiglia per poterli incontrare ma poi perché, mi domando. Le mani per una persona sono la cosa più importante che ci sia. Sono le mani che prendono in braccio un bimbo appena nato, che lo portano a scuola e lo tengono stretto quando piange. La sola idea che i figli di quella donna possano vedere su di me le mani della mamma, non riesco a sopportarla, è inaccettabile. Mi creda, non è mancanza di rispetto o di riconoscenza».
Come è stato stringere per la prima volta la mano di un altro dopo il trapianto?
«Una bella sensazione. Ricordo il primo scambio di pace in chiesa, ho stretto la mano del mio vicino e lui non ha battuto ciglio. Prima, con le protesi, vedevo solo tanto imbarazzo e disagio».
Se manca una mano cosa manca?
«Ti manca tutto, la possibilità di accarezzare i capelli di tua figlia, di sentire le persone che ti stanno accanto, hai una mano di bambola, è come toccare un braccio di marmo».
Non parla mai del dolore, quello fisico.
«Dopo il trapianto ho provato un dolore tremendo, poi delle sensazioni simili a scariche elettriche fastidiose, ogni tanto ancora adesso sento qualche formicolio».
E il timore del rigetto?
«Il rigetto è un’eventualità sempre. A volte si verifica subito, a volte dopo molti anni. Per ora va tutto bene per fortuna».
E i suoi piedi?
«Ho le protesi. Una va bene e l’altra meno e confesso che molto tempo lo passo sulla sedia a rotelle. Ma non mi lamento, sto bene, ho la mia casa, la famiglia e il mio giardino».
Come le sembra la vita adesso?
«Sono più attenta a quello che mi sta attorno perché sto seduta».
Basta così poco?
«Passi la vita a correre e poi ti capita una cosa così, ti fermi e ti accorgi del mondo che ti sta intorno. Ho imparato a vedere gli occhi dei miei due figli, gli sguardi preoccupati di mio marito, le foglie che cadono. Prima non c’era tempo per niente. Lavoravo e mi occupavo dei figli e non avevo mai tempo per nulla, figurarsi per me stessa. Correvo per non pensare. Ma se la mente non sta bene e non segue il corpo, si perde la strada e qualcosa va in tilt».
È una donna forte lei, lo sa?
«Forte è chi sa sempre quello che deve fare mentre io ho mille dubbi e incertezze. Però sono tenace perché nonostante le debolezze non mollo mai».