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 2016  dicembre 01 Giovedì calendario

Torna il caro petrolio. Ecco chi piange

C’è l’accordo sul petrolio. Dopo otto anni di tentativi infruttuosi i Paesi dell’Opec, il cartello che rappresenta un terzo circa dell’offerta mondiale dell’oro nero, hanno firmato ieri Vienna l’intesa per ridurre la loro produzione di 1,2 milioni di barili al giorno. A partire da gennaio, secondo quanto annunciato ieri dal presidente di turno, l’emiro del Qatar, dovrebbe andare in vigore (condizionale d’obbligo perché mancano diversi dettagli) il nuovo tetto di 32,5 milioni di barili contro 33,64 di oggi. 
La notizia ha subito infiammato le quotazioni dell’oro nero, schizzate su dell’8% attorno ai 50 dollari. In ascesa, come è ovvio, i titoli petroliferi ma anche il dollaro, che veleggia sui massimi dal 2002. Perde colpi invece l’oro assieme ad altri beni rifugio, tra cui le obbligazioni Usa: la stagione dei prezzi bassi e della deflazione sembra volgere al termine, per la gioia dei banchieri. Ma, al di là delle prime reazioni, mercati, società e governi sono ora impegnati a capire che cosa accadrà per davvero. E lo stesso vale per i consumatori, alle prese con il prezzo della benzina (e, non meno importante, del riscaldamento). 
FUMATA BIANCA? 
Non è stato facile mettere d’accordo i grandi del greggio. Fino all’ultimo Iraq, Iran ed Arabia Saudita si sono dati battaglia fino all’ultimo barile. Alla fine Teheran ha spuntato una quota di produzione di 3,8 milioni di barili, meno di quanto chiesto dal ministro Zanganeh ma più dell’ultima proposta saudita. Anche l’Iraq, il Paese più rigido, si è accontentato di 4,351 milioni di barili al giorno. Scende anche l’Arabia Saudita a poco più di 10 milioni di barili. In sintesi, i big dell’Opec, pur essendo per motivi diversi (a partire dalla guerra in Siria ed in Yemen) affamati di quattrini si sono rassegnati a tagliare la produzione per rilanciare i prezzi. Ma per raggiungere l’obiettivo sarà necessario centrare due nuovi obiettivi. Innanzitutto, bisogna estendere l’accordo ai Paesi non Opec, a parire dalla Russia, il produttore mondiale numero uno che dipende non meno degli sceicchi dalla salute dell’industria petrolifera. L’intesa sembra possibile: la settimana prossima, a Doha, si vedranno i rappresentanti Opec e non Opec. L’obiettivo è di convincere Putin (ma anche il Kazakhstan ed altri Paesi dell’Asia Centrale e del su America) a ridurre le estrazioni di 600 mila barili contro un’offerta iniziale di 300 mila. L’accordo, dicono gli esperti, sembra possibile. Ma quali saranno le contropartite politiche e militari chiesti dal Cremlino? 
Il vero convitato di pietra è però Donald Trump, che non ha nascosto la sua ostilità negli accordi di cartello sull’energia. Ma il rialzo del greggio, per il momento, è senz’altro una buona notizia: il boom piace a Wall Street, fa risalire l’inflazione, i tassi ed il dollaro come piace al presidente, ridà fiato ai piccoli produttori indebitati con le banche. E, non meno importante, l’ultima parola spetta ai petrolieri del North Dakota e del Texas (in crescita spettacolare +10% a settmbre). Grazie agli investimenti dell’ultimo anno e mezzo, che hanno messo in ginocchio l’Arabia Saudita, oggi i produttori di shale oil possono produrre e guadagnare ad un costo di estrazione di 29 dollari (contro 50 di due anni fa). Ovvero, i prezzi in rialzo possono tenere solo se lo vogliono gli Usa. 
VERSO I 70 DOLLARI 
In questa cornice i big del mercato, Goldman Sachs e Morgan Stanley in testa, hanno visto le quotazioni 2017 in rialzo, sino a 65-70 dollari. Nessuno prevede uno strappo violento (la speculazione ha avuto tempo per smaltire le vendite short in eccesso) ma a favore di un rialzo nel tempo gioca la ripresa dell’economia e il baso livello delle scorte Usa (in calo ieri di 800 mila barili). 
Per l’Italia si profila una bolletta più alta, compensata in parte dalla ripresa dell’attività delle imprese legate al ciclo dell’energia e dell’inflazione. Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, ha già calcolato nei giorni scorsi che un aumento delle quotazioni del greggio di 10 dollari si tradurrà in un maggior prezzo alla pompa di 10-15 centesimi. Potrebbe essere l’occasione giusta per rilanciare la riorganizzazione della distribuzione (la più inefficiente d’Europa). Ma non c’è da sperarci.