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 2016  dicembre 01 Giovedì calendario

«Trump può scardinare le rigidità delle tasse Ue». Intervista a Francis Fukuyama

Donald Trump ha un asso nella manica: potrebbe esigere i contributi del 2% del Pil in spese militari per redistribuire i costi della Nato decisi in Galles, pena una spaccatura dell’alleanza. Potrà forzare così una rottura dei limiti nei rapporti disavanzo/Pil imposti da Bruxelles chiedendo eccezioni. È uno sviluppo possibile emerso in una lunga chiaccherata del Sole 24 Ore con Francis Fukuyama, il celebre scienziato politico che insegna a Stanford University. Con Fukuyama si è parlato di tutto, del nuovo vento populista che sferza in Europa e in America come conseguenza di decisioni lontane, adottate subito dopo la fine della Guerra Fredda con la creazione di un’architettura economica globale che ha prodotto sì benessere, ma in modo diseguale. Fukuyama mette quattro incognite al centro dell’equazione per l’America di Trump, sul piano della politica estera dice: «Obama e Trump si assomigliano, sono entrambi isolazionisti». Prevede dunque un minore interventismo soprattutto nel “Nation Building”. Ritiene che a Washington con il personaggio Trump si sia già entrati in un contesto post partitico con problemi, nonostante la vittoria alla Casa Bianca, per il partito repubblicano e in particolare per il Tea Party. Ritiene che il tema centrale riguarderà gli investimenti infrastrutturali, una sfida secondo lui da raccogliere in pieno che segnerà il ritorno della “bipartisanship”, su quel tema e su quello delle rigidità commerciali. Non pensa che la vittoria di Trump o l’espandersi del populismo segnino la “fine della democrazia”, anzi, dice, queste elezioni hanno dato voce a persone che si sentivano e si sentono escluse.
Infine un commento sul referendum del 4 dicembre in Italia: è per il sì, perché l’abolizione del Senato darebbe un colpo alla “vetocrazia”, a quella paralisi di governo che deriva da veti incrociati per la maggioranza delle decisioni politiche. Una vittoria del sì in Italia sarebbe molto importante perché definirebbe una linea di resistenza al dilagare di un populismo oscurantista in Europa sempre più estremista. Ma l’aspetto più interessante della chiaccherata con Fukuyama resta la via della Nato per sbloccare i limiti di bilancio in Europa. Obama ha sempre provato a convincere la Germania a cedere sul fronte dell’austerità e di aprire a politiche fiscali aggressive. Con Trump la sfida potrebbe addirittura sfiorare il punto di rottura nelle relazioni transatlantiche se la Germania non accetterà di fare un passo indietro. Di questo si parlerà domani alla Luiss, a un convegno dedicato al post elezioni americane: “Post-Election America: Political and Economic Challenges” dove interverranno scienziati politici come Walter Russel Mead e appunto Fukuyama, con il quale apriamo il dibattito.
Con la vittoria di Trump lei ha parlato di elezioni “spartiacque”. Quale Trump prevarrà, il pragmatico o l’ideologico?
Mi sembra difficile inquadrare Trump all’interno di un’ideologia. È aggressivo, ha parlato di protezionismo, di rivedere le alleanze americane, ha promesso la persecuzione dei suoi oppositori e via dicendo. Quale sarà il volto? Un paio di giorni fa pensavo prevalesse quello pragmatico perché ha detto che non avrebbe più perseguito Hillary Clinton, ha aperto all’Obamacare, è stato moderato sulla Nato. Poi, qualche giorno dopo, ha rivendicato la sua vittoria anche nel voto popolare, puntando il dito contro una grossa frode elettorale. Il vecchio Trump, che trae conclusioni dal nulla. Detto questo, fino ad ora molte delle sue nomine non sono state così negative come avrebbero potuto essere.
Cosa spiega secondo lei il voto americano: l’11 settembre, la globalizzazione, la forza di Trump?
Non credo si possa imputare tutto all’11 Settembre. E Trump rappresenta i sintomi di un malessere, non la causa. La radice risale alla fine della Guerra Fredda, quando Usa e Europa hanno aderito a una visione comune sia politica che economica: si sono trovati d’accordo sul libero mercato, sulla promozione di frontiere relativamente aperte, su un sistema di economie liberali tutelate da grandi istituzioni come il Fmi, il G20 o la Wto, hanno cercato di cooptare la Cina e hanno rafforzato l’impalcatura della sicurezza attorno al multilateralismo, che esiste dalla fine degli anni 40. Tutto questo ha prodotto un benessere incredibile in termini di globalizzazione, ma non una redistribuzione equa di questo benessere. E i nodi sono venuti al pettine. C’è questo, un accumulo di risentimenti decennali, dietro questa svolta epocale.
Qual è l’impatto politico, siamo forse entrati nell’era del post partitismo?
Entrambi i partiti subiranno un cambiamento radicale. Nonostante Trump abbia vinto, l’analisi sulla spaccatura interna al partito repubblicano resta valida: c’è una differenza incolmabile fra gli interessi personali della classe operaia mobilitata da Trump e la leadership del partito, e non c’è modo di aggirarla. Questa frattura può essere brevemente sepolta in un cassetto trovando accordi su temi come patriottismo o l’aborto. Ma Trump ha fatto qualcosa di unico, ha mobilitato la classe operaia e i repubblicani sono spiazzati. Poi c’è la questione infrastrutture, al centro del programma di Trump, si tratta di statalismo. E i principali oppositori a questo programma sono proprio i repubblicani tradizionali. I democratici invece potrebbero appoggiarlo. Insomma con una aggressiva politica infrastrutturale cambia tutto....
Con quali conseguenze?
Ci sarà un vero problema per il Tea Party, sulle infrastrutture potrebbe non concedere il voto a Trump che potrà fare una coalizione bipartisan. La polarizzazione tradizionale tra i due partiti resterà, ma se questa coalizione vedrà la luce, cambierà radicalmente il partito repubblicano, perché il Tea party sarà tagliato fuori.
Il nuovo segretario al Commercio WIlbur Ross ha promesso ieri tariffe e protezionismo contro la concorrenza sleale, ma non è forse vero che il problema più serio per i lavoratori è l’innovazione tecnologica?
Si, è vero e lo sarà per un lungo periodo di tempo. Ma se per il commercio si sa come intervenire, nessuno ha un’idea precisa su come arginare questo fenomeno inarrestabile dell’innovazione tecnologica. Il rischio è che nessuno sia in grado di presentarsi con una risposta politica alla perdita dei posti di lavoro. E non c’è stata nessuna proposta credibile per gestire l’innovazione.
Il rischio di “chiusura” dunque c’è. Potrebbe estendersi all’architettura multilaterale militare e politica, quanto è importante mantenere quest’impianto di sicurezza?
A livello economico il sistema politico militare ha funzionato perché gli Stati Uniti erano la potenza egemone ma lasciavano allo stesso un accesso quasi gratis a questo sistema. Lo stesso capitava con la Nato. E non c’è dubbio che la questione su come dividersi gli oneri è un problema che non si è posto per almeno 30-40 anni. Ma gli stati Uniti hanno accettato di sostenere il costo maggiore perché avevano compreso che non si poteva chiedere nulla di più agli alleati. Ma qui si pone la vera domanda. Quanto Trump proverà a rinegoziare questi accordi, provando anche a ridiscutere gli elementi basilari dell’appartenenza alla Nato? E quando si renderà conto di non poterlo fare, allora quale sarà la sua scelta? Abbandonare questo sistema o continuare a fare quello che in fondo hanno fatto anche tutti gli altri presidenti?
Come sa c’è gia un impegno a contribuire alla Nato con un 2% del Pil in spese militari. Questa non era un’idea di Trump anche se l’ha venduta come sua, ma è stata ratificata agli incontro Nato del Galles. L’Italia però per via delle rigidità di bilancio europee è molto al di sotto della soglia del 2%. Crede che partendo dalla difesa Trump possa scardinare le rigidità fiscali europee?
Si. E, ad esempio, se l’Europa cominciasse ad investire in modo consistente sulle infrastrutture militari, questo avrà una ricaduta molto positiva anche sull’economia americana. È uno scenario possibile: questo potrebbe davvero cambiare i toni della discussione anche in Germania. Certo si tratterebbe di uno scenario ottimista, simile a quello che riguarda le infrastrutture americane. Ma Trump potrebbe effettivamente provare a forzare le rigidità europee partendo dalla Difesa, dalla Nato, si potrebbe chiedere all’Europa di escludere certe voci dai vincoli di bilancio. Non sarebbe una cattiva idea. Ma per ora sappiamo poco dobbiamo solo aspettare. Per il resto alcune cose in ambito Nato si possono rinegoziare, ma non avrei alcuna intenzione di rinegoziare le nostre relazioni con i paesi baltici o con la Polonia.
In Italia il 4 dicembre si vota per la riforma riforma della costituzione. La sua posizione?
A livello puramente tecnico sono completamente a favore, è un passo in avanti contro la “vetocrazia” che paralizza tutto. In Italia, come in America, avete un Senato che blocca e un sistema elettorale che promuove la frammentazione dei partiti politici. Per cui non si tratta solo di questo referendum: sono molti i cambiamenti da attuare per rimuovere questi ostacoli e per consentire di semplificare il processo che porta a prendere delle decisioni. Per questo sono a favore, è un passo nella direzione giusta. In ogni caso credo che Renzi abbia avuto una buona idea: l’Italia ha davvero bisogno di creare un sistema politico che sia in grado di prendere più decisioni. Sarei felice di liberarmi anche del nostro Senato se potessi.
Torniamo alla sua definizione di fine della storia, che nonostante tutto continua a muoversi. Come vede evolversi la storia in questo periodo?
Molte persone, dopo aver visto quanto è successo con Brexit e con le elezioni americane, hanno gridato al crollo della democrazia, ma io credo che sia una grossa esagerazione. Se non altro per rispetto del fatto che il volere delle persone ha vinto sul desiderio delle classi dirigenti. E non credo che tutto ciò che sta accadendo sia negativo. Inoltre ogni attacco nei confronti del populismo presuppone che i partiti tradizionali stiano facendo tutte le scelte giuste, e credo che questo non sia vero: basta guardare alle grandi crisi finanziarie in America e in Europa, alla crisi dei rifugiati. La classe dirigente deve rispondere di molte cose. La preoccupazione è che tutte queste forze intolleranti anti liberali siano oggi senza controllo e non abbiamo ancora visto la fine di tutto questo. Spero che questo non succeda ma potrà peggiorare.
È preoccupato? Pensa che ci sia stia avviando verso una fase di oscurantismo?
Sono molto preoccupato: è esattamente quello che dico. Il problema è che una volta scatenati questi gruppi non sembrano essere in grado di fermarsi su posizioni ragionevoli; diventano sempre più estremisti, e questo oggi è un grosso rischio.
Quanto può essere importante la vittoria di Renzi per dimostrare che c’è ancora una resistenza vigile?
È molto importante. Così come lo sarà l’elezione francese dell’anno prossimo.