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 2016  dicembre 01 Giovedì calendario

Riccardo Chailly: «Puccini è nei dettagli. Così torna alla Scala la prima Butterfly»

Incredibile ma vero, la Scala non «apriva» con Puccini da 33 anni: 7 dicembre 1983, Turandot. Quindi la prima notizia è che a Sant’Ambroeus torna il sor Giacomo. La seconda, che Riccardo Chailly diriga Madama Butterfly nella versione originale, quella che nel 1904 fu selvaggiamente fischiata proprio alla Scala.
Chailly, la «Butterfly» prima versione ci consegna un Puccini più moderno...
«A volte si è detto e scritto che nella produzione pucciniana l’opera della svolta sia La fanciulla del West. E invece è Butterfly, di cui Fanciulla è la conseguenza, diciamo così, naturale. La svolta avviene soprattutto a livello armonico. Puccini resta il melodista che sappiamo e che il pubblico ama, ma il suo linguaggio armonico diventa più complesso, audace, anche contro le regole del Conservatorio. Butterfly non è il trionfo delle romanze, o almeno non solo. E non è l’ultima opera del “primo” Puccini, ma la prima del “secondo” Puccini, quello più maturo».
Lei parla di attenzione maniacale nel lavoro di Puccini. Qualche esempio?
«Posso citare alcune delle innumerevoli didascalie di cui è disseminata la partitura, che costituiscono una sfida per l’interprete. Come quando Puccini prescrive “con malizia” sulla frase di Butterfly “Son vecchia di già”. Nel secondo atto usa tre aggettivi in successione per Butterfly, prima “sgomenta”, poi “sbalordita” e per finire “desolata”, ed è la cantante che deve trovare un colore diverso per ognuno. Oppure pensiamo a Kate Pinkerton, che qui ha una parte ben più importante. Si rivolge a Cio-cio-san per chiederle il bambino in maniera “peritosa”, vocabolo arcaico che sta per timorosa, debole. Puccini non lascia nulla al caso».
Appunto. Per l’interprete, non è un problema? Un eccesso di analisi non spegne l’emozione?
«È lo stesso rischio che si corre con l’altro autore a me più caro, Mahler. Con lui come per Puccini, e li metto assolutamente sullo stesso piano, si deve partire dalla partitura, da uno studio minuzioso. Poi sta all’interprete farsi trascinare dall’emozione della musica e trasmetterla al pubblico. Ma riesci a emozionare se sei analitico. Il contrario, forse no».
Perché scegliere la versione originale dell’opera e non una delle revisioni d’autore?
«Io non ho mai detto che la prima versione sia “migliore”, che poi non significa nulla. Dico che le varie versioni di Butterfly sono come un puzzle, e che per ricomporlo bisogna disporre di tutti i pezzi. Con la ricostruzione della versione originale finalmente li abbiamo tutti, quindi conosciamo meglio Puccini».
Per punti, le differenze rispetto alla «Butterfly» standard.
«Primo: la forza drammaturgica dell’opera è ancora più a fuoco, più sintetica e più concentrata. Secondo: lo scontro fra due culture inconciliabili, quella americana e quella giapponese, è ancora più evidente. Lo spazio assegnato alla famiglia della geisha è maggiore, come il disprezzo razzista del marinaio per i suoi nuovi parenti, che si estende perfino alla cucina: “Non c’è più nauseabonda leccornia della nipponeria”, canta. Terzo: è più evidente la tragedia del secondo matrimonio di Pinkerton. È la sua nuova moglie, Kate, che viene a chiedere a Butterfly di consegnarle il figlio. E la codardia irresponsabile di Pinkerton, la sua assenza di pentimento, il suo inconscio cinismo sono evidenti perché non c’è “Addio fiorito asil”, composta successivamente per Brescia, romanza bellissima, che però frena il finale e costituisce una specie di alibi».
Perché nel 1904 fu un fiasco?
«Gli storici ne stanno ancora discutendo. Di certo Puccini si aspettava un trionfo e il fiasco lo ferì come pochi altri episodi della sua vita. Da allora, non diede mai più un’opera nuova alla Scala. Io penso che il pubblico fosse sconcertato dalla durata del secondo atto, un’ora e 30 minuti circa, e dal nuovo tipo di teatro “interiore” vissuto dai protagonisti. Oggi, ovviamente, questi non sono più problemi».