Corriere della Sera, 1 dicembre 2016
La scia di vittime e i discorsi sulla fine di Michael Jackson. «Ma qui non c’è omertà»
Saronno Nell’ospedale della morte si evita anche di nascere. Le privilegiate che non si fidano, sanno e possono, partoriscono altrove. È così da decenni. Ancor prima degli omicidi dell’anestetista e dell’infermiera; nonostante i novecento parti l’anno; a dispetto della rabbia, in verità spesso soffocata e subìta, dei professionisti perbene.
Tanti figli degli anonimi paesi attorno a Saronno – Gerenzano, Caronno Pertusella, Ceriano Laghetto – sono venuti al mondo lontano da qui. Da questo posto che per dirla con uno storico sindacalista della sanità lombarda è sempre rimasto sotto gli standard della qualità, e che a sentire meno prosaicamente la gente della zona ha un’eterna fama sinistra. Dove bisogna inseguire raccomandazioni perfino per un «day hospital»: si sa mai. Adesso s’infuria la signora della portineria, bava alla bocca maledice i vigili che non cacciano dall’aiuola le telecamere («Ma basta! Via! La storia è chiusa!»); e s’indigna il cortese cassiere del bar dell’ospedale, vicino ai fogli in evidenza con le vincite da gennaio del «gratta e vinci», poche e basse nonostante la raffica di vendite dei tagliandi: «Questo è un ambiente umano e lavorativo molto positivo. Le mele marce sono ovunque ma non bisogna dar loro troppo peso». Vada a dirlo ai parenti degli anziani ammazzati.
Ora dopo questo scandalo criminale si evocherà l’eterna lottizzazione, la «geografia politica» d’appartenenza e di influenza, Saronno provincia di Varese dunque Lega e Comunione e liberazione. Ma così facendo si girerà intorno alle responsabilità individuali. Degli arrestati. Degli indagati. E del «sistema» che li ha coperti. Dobbiamo leggere le carte dell’inchiesta. E riesaminare il percorso della Commissione che venne istituita nell’aprile 2013 dall’Azienda ospedaliera di circolo di Busto Arsizio del direttore sanitario Roberto Cosentina, proprio per far luce sull’operato di Cazzaniga dopo le prime denunce degli infermieri. Di quel gruppo coordinato da Paolo Valentini, direttore medico dell’ospedale di Saronno, facevano parte Claudio Borgio (responsabile del servizio infermieristico tecnico e riabilitativo), Fabrizio Frattini (direttore del dipartimento di emergenza e urgenza e della struttura di anestesia e rianimazione), Maria Luisa Pennuto (a capo della medicina legale) e Nicola Scoppetta (responsabile del pronto soccorso). Ebbene «nel corso dei lavori della Commissione non sono stati redatti verbali delle riunioni, non sono stati sentiti gli infermieri segnalanti né altri infermieri che hanno assistito Cazzaniga e non è stata analizzata alcuna documentazione medica ulteriore», è stato omesso di «rilevare gli elevatissimi sovradosaggi di farmaci somministrati ai pazienti deceduti» e infine «contro ogni evidenza scientifica è stato espresso un giudizio di correttezza professionale e deontologica dell’operato di Cazzaniga». Tace Scoppetta, raggiunto al telefono (sottofondo di un bimbo): secondo l’accusa si mobilitò per impedire le denunce provocando «un ritardo nell’avvio delle indagini». Tace Valentini: «Non ho voglia». Tace Pennuto: «La saluto». Frattini si limita a una frase: «Non c’entro niente ma non è il momento di commentare». A un altro dei medici che compare nelle carte domandiamo come sia possibile questa tremenda omertà: «Non si permetta neanche... Omertà... Qui si tratta solo di silenzio per rispetto verso le indagini». Eppure in tanti erano a conoscenza e per paura, debolezza e servilismo si erano guardati dal denunciare. Salvo poi, una volta davanti agli inquirenti, cantare a decine. Decine. Ma era troppo comodo. Pur di salvarsi.
Alle tre e un quarto del pomeriggio nella sala d’attesa del pronto soccorso ci sono meno persone che nella chiesa dell’ospedale, una chiesa grande, a due piani; su una sedia è rimasto spiegazzato il foglietto della messa di domenica con le parole di Gesù: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra». Accanto al pronto soccorso c’è la terapia intensiva. Un cartello sulla porta spalancata invita: «Aiutateci a mantenere chiusa questa porta». Su una parete un poster della rocca di Angera. Pulizia sul pavimento. Ordine nei corridoi. Trovare tracce evidenti per legittimare le negatività dell’ospedale è un esercizio inutile. Bastava ascoltare i muri che parlavano. Come in questa conversazione intercettata il 23 maggio 2015 tra due dipendenti dell’ospedale, Patrizia Paola Erba e Giuseppe Di Lucca (che all’epoca era stato appena sentito dal pm): «Li ammazzava?». «Sì gli faceva il propofol a endovena». «Oh mamma... ma tu basta?». «No basta, basta». «E secondo te è una terapia eccessiva?». «Ca... l’ha ammazzato, l’ha ammazzato... l’ha ammazzato!». «Ma lui lavora ancora lì?». «L’ha ammazzato!». «Ma non sa che ti hanno chiamato?». «... è arrivato in pronto soccorso... non so cosa... gli ha fatto duecento milligrammi di propofol, venti milligrammi di morfina e sessanta milligrammi di midazolam... gli ha fatto una roba... cioè quella che aveva ucciso Michael Jackson».