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 2016  novembre 27 Domenica calendario

Sul Granma la Revolución

Il ritorno di Fidel a Cuba a bordo del Granma, così magnificato dalla retorica castrista, in realtà non fu uno sbarco, fu un naufragio. Il viaggio dal Messico, da dove erano partiti, era stato un incubo. La barca, comprata per 30 mila dollari da un espatriato cubano che viveva negli Stati Uniti e regalata a Fidel, lunga 38 piedi, poteva portare al massimo 25 passeggeri. Erano invece 81 e la linea di galleggiamento si era abbassata molto. Durante l’attraversata del Golfo del Messico incapparono in uno di quei fortunali che sono così frequenti nella zona.
Uno degli ottantuno, un certo Faustino Perez, futuro membro del comitato centrale del partito comunista a Cuba, ha ricordato quei momenti terribili: «Le ondate erano alte come montagne e si abbattevano sulla Granma sfasciando ogni cosa. Non so come abbiamo fatto a raggiungere Cuba in quelle condizioni. Tutti stavano male, avevano il mal di mare e vomitavano in continuazione». Quando finalmente il Granma, raggiunse la costa orientale di Cuba, all’alba del 2 dicembre del 1956, dalla barca uscirono, non degli uomini, ma degli zoombi. Per raggiungere la spiaggia dovettero infilarsi fra le mangrovie e non riuscivano a portare con loro né viveri né acqua. Quando finalmente raggiunsero la spiaggia tutti erano affamati e assetati e coperti di fango, ma contenti di calpestare finalmente il suolo cubano.
Fidel, che allora aveva 30 anni e si era proclamato capo dell’esercito ribelle, un titolo un po’ eccessivo per quella modesta banda di avventurosi giovanotti, aveva pianificato lo sbarco come emulazione di una impresa analoga compiuta da José Marti e altri rivoluzionari cubani nel 1895, quando iniziarono la guerra di liberazione contro la Spagna. Ma questa volta le cose non andarono così bene. A poche ore dal suo arrivo nell’isola, il gruppo venne identificato da un piccolo aereo di ricognizione che cominciò a lanciare bombe sopra le mangrovie dove il pilota pensava si nascondessero gli uomini di Castro. Non ci furono feriti e Castro poté trasferire tutta la banda per le campagne intorno. Il loro obiettivo era di raggiungere la Sierra Maestra, una catena di montagne alte quasi 2.000 metri, dove sarebbero stati più al sicuro, marciando solo di notte, per evitare di essere sorpresi ancora.
La mattina del 5 dicembre, quando erano sull’«orlo del collasso», perché non avevano né bevuto né mangiato, come disse più tardi il Che, si fermarono in un posto chiamato Allegria de Pio. Ma uno dei contadini che Castro aveva ingaggiato come guida del posto, andò a informare le guardie rurali della loro presenza. Alle 4 del pomeriggio i ribelli videro un aereo che stava passando sulle loro teste. Entro pochi secondi arrivò la prima scarica di mitragliatrici. «È il nostro battesimo del fuoco!», commentò il Che. Nella totale confusione il Che e gli altri uomini furono colpiti: «Io provai una forte fitta sul torace e una ferita al collo. Ho pensato in quel momento che stavo per morire».
Gli uomini di Castro che erano tutti alla loro prima battaglia, presi dal panico iniziarono a scappare come conigli. Molti furono catturati e fucilati sul posto, altri disertarono. «Alla fine non rimanemmo che 24, 25 combattenti, diciamo così, di cui la metà erano feriti». Nei successivi 5 giorni Fidel errò per i campi coltivati e i boschi con due compagni per sfuggire alle pattuglie dei soldati che lo andavano cercando. Quando si riposava metteva la canna del fucile a ripetizione accanto alla sua gola: «Se mi trovano tiro il grilletto e così la faccio finita». Quando era sveglio non faceva altro che parlare con tono altisonante e retorico ai suoi due compagni in fuga, come continuerà a fare più tardi. Ma i due compagni non lo stavano molto ad ascoltare perché pensavano stesse delirando.
Fidel era un rivoluzionario anomalo a tutti gli effetti: Tito veniva da una famiglia di poveri contadini, Mao da una famiglia di contadini benestanti. Ho Chi Minh e Giap erano dei mandarini declassati, Castro era ricco di suo, il padre era un terratenientes che aveva una proprietà di 35 mila acri. La sua retorica barocca era di genere letterario, tipica di uno studente, non di un proletario. Raggiunta per miracolo la Sierra Maestra dimostrò di avere anche capacità tattiche e guerrigliere. Comprese che per sopravvivere doveva chiedere non solo l’aiuto interno dei paesani che erano opportunisti e si buttavano sempre dalla parte del più forte e volevano solo essere lasciati in pace. L’aiuto decisivo doveva venire dall’esterno, attraverso una operazione simile a quella che aveva lanciato Lawrence d’Arabia.
Imitando quello che aveva fatto Jose Martì, che aveva concesso una intervista al New York Herald, poco dopo il suo arrivo a Cuba nel 1895, fece venire nella Sierra Maestra Herbert I. Matthews, uno scrittore che aveva la tendenza a farsi passare per un nuovo Edgard Snow, il famoso giornalista che aveva raccontato la lunga marcia di Mao. L’intervista, che era piena di balle e che non raccontava la verità sulla reale consistenza del gruppo guerrigliero, ebbe l’effetto voluto: rese l’impresa di Castro popolare in tutto il mondo. Alla Sierra Maestra cominciarono ad affluire non solo rivoluzionari di qualsiasi tipo, giovanotti di belle speranze, avventurieri o sinceri patrioti, ma anche munizioni, materiale farmaceutico, viveri e tutto quanto occorreva ai castristi che non potevano rifornirsi nei negozi. L’intervista ebbe anche un altro effetto; Battista non aveva un nemico solo, ne aveva parecchi, il maggior rivale in questo senso di Castro era Jose Antonio Enchevarria. Dopo la pubblicazione dell’articolo di Matthews, si decise di prendere d’assalto il Palazzo presidenziale con pochi uomini e scarsa preparazione in un disperato tentativo di raggiungere la notorietà di Castro. La sua morte lasciò Fidel come unico grande rivale di Batista.