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 2016  novembre 27 Domenica calendario

Francesco De Gregori. «La tastiera che suono è una Lettera 32»

In Eccomi di Safran Foer un padre racconta al figlio di quando – da ragazzo – passava interi pomeriggi a trascrivere le sue canzoni preferite dai nastri. «Ascoltavo una canzone per un secondo o due, poi scrivevo quello che avevo sentito, poi riavvolgevo e riascoltavo di nuovo per essere sicuro di aver capito bene». Dopo aver letto questa pagina, sono sceso in cantina e ho ritrovato un mio quaderno dei tempi del liceo in cui – per poterle strimpellare alla chitarra – avevo trascritto, in quello stesso modo, decine di canzoni di De Gregori. E ora eccomi che posso raccontarlo a De Gregori.
Ognuno di noi ha il suo De Gregori personale: quel quaderno si apriva con canzoni come «Souvenir», «Pezzi di vetro», «Signora Aquilone».
«Signora Aquilone è la prima vera canzone che ho scritto. All’epoca mi sembrò un punto d’arrivo».
E invece era un punto di partenza: quel filo d’argento ci ha portato fin qui. Ma che anno era?
«Il 1970, direi: 46 anni di canzoni che ora stanno tutte in fila in questo cofanetto di 32 dischi. In realtà cofanetto non è una bellissima parola, mi ricorda una vecchia pubblicità delle caramelle. Chiamiamola raccolta: una raccolta con tutti i miei dischi ufficiali, di studio e dal vivo. Non vorrei mai definirlo un bilancio definitivo: sono sicuro che di dischi ce ne saranno altri. E però è una cosa che mi fa piacere che esista. Vedere raccolto tutto quello che io ho fatto, diciamo tutto il mio corpus».
Che effetto le ha fatto risentirlo tutto insieme?
«Di alcuni dischi non avevo un bellissimo ricordo: mi riferisco a questioni di suono. Avevo il timore che, risentendoli, non mi piacessero. E invece questo non è successo. Forse perché uno si perdona. Forse perché, all’interno di un percorso, poi scopri che ogni disco era necessario. Era la necessaria conseguenza di quello fatto prima – con i pregi, i difetti, i tentativi anche di innovazione – ed era necessario perché potessi, poi, fare il disco successivo».
A proposito di «corpus», il suo primo disco – il vostro primo disco, perché era tuo e di Venditti – si chiamava «Theorius campus». Come mai questo strano titolo?
«Me l’ero inventato io. Credo sullo sfondo ci fosse Thelonious Monk, addirittura. Però questa desinenza in -us ci sembrava fica. Poi eravamo due, quindi un nome doppio. Poi campus rimandava a Berkeley, alle lotte studentesche. Tutto questo espresso e non espresso, meditato e non meditato. Però alla fine Theorius campus suonava bene».
In tutti questi anni è cambiato più il suo modo di scrivere o di cantare?
«Secondo me il modo di cantare. Il modo di scrivere, tolta una certa effervescenza giovanile che un po’ rimpiango e un po’ dico: magari era anche troppa...».
Quella che viene definita «ermetismo»?
«Quella che erroneamente viene definita ermetismo. Tolta quell’effervescenza, il mio modo di scrivere credo sia sempre lo stesso. De Gregori si riconosce, che sia dentro Alice che sia dentro Sulla strada o anche nelle canzoni che ho tradotto da Dylan: anche lì c’è qualcosa di fortemente personale. Mentre il modo di cantare inevitabilmente s’è modificato. Possiamo dire che oggi ho una maggiore sicurezza nel canto, una maggiore impudicizia. Meno paura di non aderire alla calligrafia del bel canto, che all’inizio era molto forte».
Quando scrive le sue canzoni, vengono prima le parole o la musica?
«In generale, si parte da qualcosa che può essere o musica o testo e poi si procede insieme. Un verso scritto ti porta a fare una certa melodia e quando hai cominciato a fare quella melodia, magari vai avanti, perché la melodia ha una sua strada abbastanza segnata. Testo e musica si scrivono insieme. D’altronde, tu in una canzone ascolti prima la musica o le parole? Non c’è risposta».
Ci sono parole che non metterebbe in una canzone?
«Io credo che tutte le parole possano essere utili. A seconda di quello che devi raccontare usi le parole che ci vogliono. Posso mettere anche un attimino dentro a una canzone, se mi serve. Oppure piuttosto che. O tutte le altre parole che odio: apericena, impiattare... Non bisogna avere paura delle parole: è come le usi che le rende colpevoli o che le rende innocenti».
Ma sui testi lavora molto?
«All’inizio scrivo a mano. Poi, quando una canzone ha preso una forma, diciamo quando ho tre quarti di canzone, allora la batto a macchina con la mia Lettera 32, perché questo mi serve a dare ordine. E lì emergono le cose che non funzionano. Allora intervengo prima con la penna, poi scrivo di nuovo a macchina, poi di nuovo con la penna: è una specie di tela di Penelope. Trovare le parole giuste è come un gioco, come fare le parole crociate. Ha a che fare con l’enigmistica».
E le caselle quali sono?
«Le battute, il suono, la cantabilità. È incredibile come cambi tutto se tu invece di dire “sono venuto qui”, dici “sono venuto qua”. Cosa cambia? La ritmica è uguale, il senso è uguale: eppure una funziona e l’altra funziona peggio. Quando ho tradotto Dylan, un verso terribile era il primo di Un angioletto come te. Dylan dice: “The pressure’s down, the boss ain’t here”. Cioè: “La pressione è diminuita, il capo non c’è”. Questa pressione io non sapevo proprio come renderla. Alla fine ho trovato la parola atmosfera: “L’atmosfera è buona”, che dà l’idea della situazione e contiene anche un po’ del suono originale. Se avessi detto l’occasione, scivolava di meno. Ma perché? Non lo so».
A Bob Dylan quell’«Amore e furto» di De Gregori ha portato fortuna. D’altronde, già nel libro intervista pubblicato da Laterza lei diceva: «Dylan è un artista che fa letteratura usando la canzone». Che cosa ne pensa di questo Nobel che ha fatto tanto discutere?
«Qui c’è stato un equivoco. Qualcuno ha pensato che a Dylan fosse stato dato il Nobel per la poesia. E hanno ribattuto dicendo: i testi delle canzoni non sono poesia. Benissimo. L’ho sempre sostenuto. Ma il Nobel è stato per la letteratura, non per la poesia. Uno può avere tante idee diverse su che cos’è letteratura. Se tu resti ancorato all’idea che la letteratura sia solo quella che viene stampata, allora uno che fa canzoni non c’entra. Se invece – come me – hai l’idea di una letteratura allargata, allora è diverso. Io ho un’idea di letteratura che è comprensiva. Non troverei scandaloso che si fosse dato il Nobel a Walt Disney o a Chaplin o per assurdo anche a Picasso. Perché per me la letteratura è ciò che racconta il tempo. La narrazione di noi stessi, di quello che siamo, oggi non è più confinata nella pagina scritta. Mi rendo conto che se andiamo avanti così daranno il Nobel a un cuoco, però...».
Dylan definiva la sua «Joey» una ballata omerica. E allora viene in mente «Omero al Cantagiro»: «Cantami Omero, cantami una canzone».
«Nella canzone Omero appare all’inizio come un cantante da Cantagiro. Uno che si può chiamare tranquillamente Omero, perché in quegli anni i nomi dei cantanti erano di quel tipo lì: metti, Omero Taldeitali. Poi, siccome nelle canzoni avvengono i miracoli, le trasfigurazioni, nell’ultima strofa è come se Omero – sotto a questo grande acquazzone, in mezzo a questa gente con in mano i dischi da firmare, a queste macchine scoperte, a questo clima da festa di paese – per un momento s’illuminasse e diventasse come il vero Omero e cominciasse a cantare del “mare color del vino”».
La pioggia, le foto, l’autografo. Un po’ come in «Guarda che non sono io».
«Dopo aver scritto Guarda che non sono io, ho pensato – magari inconsciamente lo sapevo pure prima – che Dylan ha fatto una canzone intitolata It Ain’t Me Babe. Non è che volessi fare una canzone sulla mia irriconoscibilità o sul fatto che la maschera non è la persona. Anche lì è il suono quello che conta. Per questo te la devo cantare: “Guarda che non sono io quello che stai cercando...”. È lì che sta in piedi la canzone. Se non ci metto le note, questa cosa la perdi».
Quando Leonardo Colombati, nella sua antologia «La canzone italiana 1861-2011», definisce «La donna cannone» «una delle più belle canzoni italiane di tutti i tempi», fa riferimento proprio «a quelle tre note di pianoforte ormai entrate nel Dna nazionale».
«Sai, è difficile trovare uno che giri per strada recitando il testo della Donna cannone. Mentre può darsi che tu trovi uno che la canticchia, che fa “E con le mani amore nananàna nananà...”».
Nello stesso disco della «Donna cannone» c’era anche «La ragazza e la miniera», che invece ci riporta alle parole. Perché è uno di quei suoi testi in cui appaiono sgrammaticature esibite, come “ora c’è una miniera ‘che’ ci danno mille l’ora per andare giù”».
«Sono sgrammaticature legate alle storie e ai personaggi. Anche nell’Abbigliamento di un fuochista, allora, canto “ma mamma a me mi rubano la vita quando mi mettono a faticare”. Anche a quel personaggio, che è un emigrante, faccio parlare un italiano approssimativo. E però c’è quel ma mamma a me mi. Senti? Anche qui è il suono che domina. Tanto che poi gli faccio dire “l’italiano non so cosa sia”. Con quel congiuntivo che crea una specie di contraddizione in termini. Ma mi serviva a fare rima con geografia».
Eppure, da un po’ di tempo i testi delle canzoni finiscono anche nei libri di scuola. Giovanna Marini diceva anni fa, molto prima che cantaste insieme nel disco «Il fischio del vapore», che i testi di De Gregori li avrebbe fatti studiare alle elementari, per via della loro tensione etica.
«L’etica è qualcosa che mi appartiene al di là del fatto di scrivere canzoni. Anzi, vorrei che nelle mie canzoni risuonasse il meno possibile. Non mi piacciono i moralismi, casomai i moralizzatori. Giovanna mi vuole troppo bene: io non farei studiare le canzoni di nessuno alle elementari. Nemmeno alle medie. Ci sono cose più serie da studiare. Ed ecco che qui esce il moralizzatore...».