La Lettura, 27 novembre 2016
Dopo quarant’anni è finito l’assolo infinito di Hotel California
«November and December to remember»: era lo slogan con cui, nell’autunno del 1976, la Asylum Records di David Geffen preannunciava l’uscita di tre dischi nel giro di otto giorni, dal 30 novembre all’8 dicembre. I tre dischi erano Hejira di Joni Mitchell, The Pretender di Jackson Browne e Hotel California degli Eagles – e oggi, esattamente quarant’anni dopo, possiamo ben dire che mai slogan promozionale fu più azzeccato. In quelle settimane, infatti, mentre questi tre dischi cominciavano a girare sul piatto di milioni di stereo in tutto il mondo, la cultura americana – tutta, non solo la musica – raggiungeva il suo apice storico: il punto di maggiore potenza di un’onda che stava per rompersi, dopo il quale la straordinaria energia accumulata in anni di sfrenata creatività si sarebbe trasformata in schiuma destinata a dissolversi. Questo i creativi della Asylum Records non potevano saperlo, ma oggi lo sappiamo noi, e allora vale la pena ricordarli davvero, quel novembre e quel dicembre di quarant’anni fa.
Il 1976, del resto, è un anno fausto per gli Stati Uniti d’America. Innanzitutto è l’anno del Bicentenario della dichiarazione d’indipendenza, il Paese è in festa. Si è accettata l’anno prima la sconfitta in Vietnam, il che significa che la guerra non c’è più. Non c’è più Nixon. Alle elezioni presidenziali, per l’appunto in novembre, Jimmy Carter sconfigge Gerald Ford. Nel giro di sei mesi, tra aprile e novembre (di nuovo), vengono fondate prima la Apple e poi la Microsoft. La sonda Viking 1 raggiunge Marte e il suo lander vi si posa dolcemente. L’Ibm produce la prima stampante laser. Saul Bellow vince il Premio Nobel l’anno dopo aver pubblicato Il Dono di Humboldt, mentre esordiscono Raymond Carver ( Vuoi star zitta, per favore? ) e Richard Ford ( A piece of My Heart ). Agli Oscar Qualcuno volò sul nido del cuculo trionfa in una cinquina completata da Quel pomeriggio di un giorno da cani, Barry Lyndon, Lo Squalo e Nashville, e nelle sale di tutto il mondo escono Rocky, Stop a Greenwich Village, Tutti gli uomini del presidente, Complotto di famiglia, Gli ultimi fuochi, Quinto Potere, Questa terra è la mia terra.
Nella musica, poi, complice l’eclisse dell’Inghilterra che sta ancora incubando il punk, è letteralmente il trionfo americano: si parte con Desire di Bob Dylan, che esce in gennaio e produce, in marzo, la riapertura del processo a Rubin «Hurricane» Carter, ingiustamente condannato a due ergastoli per degli omicidi che non aveva commesso, cui è dedicato il brano di apertura. E poi, di seguito, prima di arrivare a novembre, Inner Worlds di John McLaughlin e la Mahavishnu Orchestra, Coney Island Baby di Lou Reed, Illegal Stills di Stephen Stills, Rocks degli Aerosmith, gli esordi di Warren Zevon e di Jaco Pastorius, Hard Rain di Dylan, Songs in the Key of Life di Stevie Wonder, Small Change di Tom Waits, Zoot Allures di Frank Zappa e Radio Ethiopia di Patti Smith.
Aprendo un poco l’obiettivo, poi, l’effetto-onda che si rompe appare anche più evidente, soprattutto per un aspetto che mai come in questo maledetto 2016 può essere compreso: le morti. Nel ’75, tra tutti i grandi della cultura occidentale, muoiono solo Tim Buckley e Rex Stout. Nel ’76, mentre l’onda raggiunge il suo culmine, muoiono Agatha Christie, Luchino Visconti, Fritz Lang, Man Ray e Benjamin Britten. Nel ’77, di colpo, l’ecatombe: Elvis Presley, Maria Callas, Errol Garner, Peter Finch, Joan Crawford, Groucho e Gummo Marx, Roberto Rossellini, Vladimir Nabokov, Bing Crosby e, in un incidente aereo, il leader dei Lynyrd Skynyrd, Ronnie Van Zant, insieme ad altri due membri della band.
Al centro di questo campo di forze contrastanti si colloca l’uscita di quei tre dischi: è lì che si produce il climax, il picco storico. E pur senza sottovalutare Joni Mitchell e Jackson Browne, artisti anche più importanti degli Eagles, non c’è dubbio che il ruggito più forte di quel memorable fall sia Hotel California – non tanto l’album quanto proprio il singolo, la title-track. Difficile incontrare qualcuno che non l’abbia mai sentito, difficile incontrare qualcuno cui non piaccia: c’è qualcosa in quel brano che eccede il rock e l’industria musicale, qualcosa che nemmeno gli autori, sospinti e quasi spossessati dall’onda che stava per frangersi, pensavano di poter dare. Gli Eagles, dunque, e non i Doors, non i Beach Boys, non i Velvet Underground o la Band o i R.E.M. – gli Eagles hanno piantato la bandiera nel punto più alto.
Tanto per cominciare, bisognerebbe chiamarli i Nuo vi Eagles: l’anima country dei primi tempi, che aveva prodotto successi come Take it Easy o Tequila Sunrise, è stata irrobustita con una più classica vena rock dall’arrivo di due nuovi elementi, entrambi chitarristi eccelsi – Joe Walsh e Don Felder. Sono loro a produrre il salto di qualità. Felder, soprattutto, porta una nuova forza propulsiva. È lui l’autore della musica di Hotel California, in un momento magico che in seguito descriverà così: «Ero seduto sul divano, bagnato fradicio, in costume, e mi gingillavo con una dodici corde pensando che il mondo è meraviglioso, e gli accordi di Hotel California sono letteralmente colati fuori. Ogni tanto succede che ti senti parte del cosmo, e qualcosa di grande ti cade in grembo». Chiuso nella sua casetta di Malibu Beach, con una batteria elettronica e un mixer a quattro piste, Felder registra da solo tutta la sequenza armonica, dall’intro fino all’assolo finale, in un demo che poi consegna a Don Henley e Glenn Frey, i quali capiscono subito che per quella specie di Mexican reggae passa il destino del gruppo che hanno fondato cinque anni prima. Su quel demo scrivono insieme un testo ambiguo, misterioso, che nemmeno loro sono mai riusciti a spiegare compiutamente, perché anch’esso eccede le loro stesse intenzioni. Parla di un viaggiatore che si ferma in un hotel nel deserto e che lì rimane prigioniero di un vischioso, decadente, asfissiante benessere. Una metafora, per loro, della dipendenza dall’industria musicale, dal denaro, dal lusso, dalle sostanze e da Los Angeles stessa – in questi quarant’anni, però, divenuta buona per tutto, proprio a causa della sua ambiguità. La strofa finale è ormai l’emblema di ogni sistema entropico, anche il più complesso: «L’ultima cosa che ricordo, stavo correndo verso la porta/ dovevo trovare il modo di tornare dov’ero prima/ “Rilassati”, disse il guardiano notturno, “siamo programmati solo per ricevere/ puoi pagare il conto quanto ti pare, ma non potrai mai andartene”».
Ad esempio, il libro di Mike Tucker e Charles S. Feddis che racconta l’operazione segreta della Cia in preparazione della guerra in Iraq s’intitola The Hotel California Operation: The Clandestine War Inside Iraq. In economia è chiamato «Hotel California Effect» il nodo gordiano di impedimenti che ostacola l’investitore straniero quando cerca di portare il proprio denaro fuori dalla Cina. Allo stesso modo è chiamato l’insieme di difficoltà che s’incontrano quando si intende lasciare un server o un social network. E non ci vuole tanta fantasia a trovarci una metafora perfetta dell’Eurozona, progettata solo per entrarvi, senza protocollo di uscita. D’altra parte, poiché negli ultimi quarant’anni la dinamica entropica è aumentata esponenzialmente in tutto il mondo, la rappresentatività del testo di Hotel California è addirittura maggiore oggi di quando è stato scritto.
Questo a proposito delle parole. Ma è chiaro che è la musica, con i suoi tre tempi, il suo arrangiamento per quattro chitarre e il lunghissimo assolo finale di Don Felder e Joe Walsh a rendere immortale questo brano. Fin dalle prime otto battute si capisce che si tratta di un pezzo destinato a rimanere nella storia, e sebbene all’inizio, per qualche secondo, l’intro sembri molto simile a quello di Angie dei Rolling Stones, appena il giro si distende si ha l’impressione di ascoltare qualcosa di mai sentito prima: è per via della Gibson EDS-1275 di Don Felder, la leggendaria chitarra a due manici da sei chili di peso resa celebre da Jimmy Page e da John McLaughlin, che gli permette di eseguire l’intro e proseguire per due strofe con la 12 corde sotto la voce smerigliata di Don Henley, poi passare al manico da 6 per il refrain, e continuare ad alternare i manici fino alla fine dell’ultima strofa. Qui, al minuto 4’20’’ di un brano già stupendo ma ancora abbastanza tradizionale, succede qualcosa che Don Felder, nella sua casetta di Malibu, quando il brano gli è «caduto in grembo», aveva forse potuto intuire, ma di certo non sperimentare: semplicemente, parte l’assolo di chitarre – la sua EDS, manico da 6, e la Carvin di Joe Walsh – che la rivista inglese «Guitarist», nel 1998, ha definito il più bello di tutti i tempi. In effetti, nei successivi 2 minuti e 10 (la metà del brano appena suonato, cioè uno sproposito, sì, ma in proporzione aurea) questi due ragazzi e la band che li accompagna fissano un nuovo standard nella tradizione del rock.
Il fatto è che nessuno poteva prevedere il risultato della combinazione tra l’eleganza di Felder e la tecnica selvaggia di Walsh, e probabilmente esso non sarebbe stato così straordinario se Don Henley, nello studio di registrazione, non li avesse sorvegliati come un pastore, pretendendo che ripetessero esattamente la progressione contenuta nel demo, senza improvvisare, e dedicassero tre interi giorni a sincronizzare le loro tecniche così diverse. Guardateli su YouTube, nel concerto del 1977 al Capital Centre di Largo, guardate come ci sono riusciti bene – anche se è nella versione in studio che l’assolo raggiunge la perfezione perché in quella versione non finisce, viene semplicemente sfumato tra il minuto 6’05’’ e il minuto 6’30’’, dando l’impressione di continuare all’infinito off records. Cioè non si esce nemmeno dal brano, e tutto torna.
Ecco perché quell’assolo non ha eguali, ecco dove sta la sua unicità: non è virtuosistico né particolarmente difficile da eseguire, ma scorre fluido e pieno di idee perfette come una manifestazione della natura, «cola» davvero fuori dalle chitarre portando con sé la forza delle sorgenti, il sollievo del dolore lenito e la fiducia in un mondo migliore – che infatti è lì davanti, dritto per dritto, e si vede, si sente, pieno di gomme lisce, magari, di ascelle sudate e di divani sfondati, ma anche di talento, di libertà e di attenzione per tutti, nel quale Elvis è vivo, agli innocenti verrà garantito un nuovo processo, ai colpevoli una pena sopportabile e il nuovo Presidente degli Stati Uniti, come primo atto dopo l’insediamento alla Casa Bianca, concederà la grazia a tutti i renitenti che si sono rifiutati di andare in Vietnam. Lassù, dal punto più alto, si vedeva tutto questo. Poi l’onda si è rotta: quarant’anni di schiuma sempre più scarica ed eccoci a oggi, alla fine dell’anno forse più infausto di tutti, in cui così tanti sono scesi dalla giostra, compreso Glenn Frey, morto il 18 gennaio, e un certo nome proprio ha finito per sempre di associarsi a Paperino o agli autori di Hotel California ( Donald Henley, Donald Felder). L’anno in cui è finito quell’assolo che non doveva finire mai.