Il Messaggero, 29 novembre 2016
Nuovo patto costituzionale dopo la fine di Dc e Pci
Perché non esiste più un partito cristiano-cattolico? Il dibattito appena riaperto ha trovato finora questa risposta: perché i cattolici hanno perso la loro identità, e si sono secolarizzati. È un’analisi condivisibile. Mi permetto solo alcune integrazioni.
Il partito cattolico, in Italia, ha avuto una vita intensa, ma nel complesso breve ed effimera: era senza antenati, ed è rimasto senza eredi. Esso infatti non aveva minimamente contribuito all’unità nazionale, realizzatasi contro la volontà della Chiesa, la quale, già indispettita con il Regno di Sardegna per le leggi Siccardi, reagì malamente alle mutilazioni degli Stati Pontifici del 1861. Porta Pia e Roma capitale fecero precipitare questi rapporti logorati, e ai cattolici fu impedito di far politica. Il non expedit papalino costituì per mezzo secolo un ostacolo vincolante per i credenti, e la classe dirigente, fino al primo dopoguerra, fu costituita essenzialmente da liberali agnostici se non anticlericali. Nel 1919 i cattolici si riunirono nel partito popolare, che fu subito fagocitato dal fascismo. E quest’ultimo ne eliminò ogni residua velleità contraendo con Mussolini i Patti Lateranensi: il dittatore, ateo e mangiapreti, divenne l’uomo della Provvidenza.
Durante la lotta di Liberazione i cattolici non furono organizzati in una struttura militarmente e politicamente unitaria.
Vi furono certo migliaia di partigiani bianchi, ma mancò l’assetto efficiente che caratterizzò i comunisti, i socialisti e gli azionisti. Ciononostante, tra il 45 e il 48, la Dc divenne il partito non solo maggioritario, ma dominante. Questo tuttavia fu dovuto a due fattori che prescindevano da una forte tradizione partitica. Il primo fu l’immenso prestigio della Chiesa e del suo Papa: prestigio acquisito con la continua, sapiente e imparziale opera di assistenza durante l’occupazione: agli antifascisti, che si rifugiarono in chiese, conventi e altri edifici ecclesiastici; e più in generale alla popolazione, avvilita dai bombardamenti, dalla fame e soprattutto dalla disperazione. Il secondo fu la paura del comunismo, che aggregò alla Dc una serie di gruppi eterogenei, privi di identità politica ma uniti dal timore di un vassallaggio servile ai cosacchi di Stalin. La straordinaria figura De Gasperi, armonizzò questi due fattori, e ne consolidò gli elementi in uno strepitoso, e forse inatteso, trionfo elettorale.
Ma fu un successo effimero. Eliminato De Gasperi, la Dc visse di rendita, e sfruttando il liberismo inoculato dal grande leader scomparso potette presiedere al miracolo economico, che se non diede all’Italia la ricchezza quantomeno la tolse dalla povertà. Con l’andar degli anni, tuttavia, la Dc si limitò alla gestione pigra di un potere consolidato, abbandonò le già scarse motivazioni ideali preoccupandosi dei conflitti interni e delle spartizioni clientelari. Malgrado questa inerzia appena mitigata da qualche bizza fanfaniana, come nel referendum sul divorzio, la sua forza elettorale rimase quasi intatta, come lo rimase quella del Pci, nemmeno scalfita dalle vergognose repressioni sovietiche a Berlino, in Ungheria e in Cecoslovacchia. I due partiti infatti si sostenevano a vicenda, come due carte in un castello: ogni errore o malversazione del governo era attribuita ai democristiani, così alimentando i voti dell’ opposizione comunista; e l’irrobustimento di quest’ultima rafforzava a sua volta i governativi. Il massimo trionfo della Dc, nel 76, fu dovuto al timore del sorpasso: gli intimiditi moderati seguirono il consiglio di Montanelli di turarsi il naso, e votare scudocrociato.
Poteva un partito prosperare, o addirittura sopravvivere, su basi così fragili? Non poteva. E infatti, quando crollò il comunismo, la sua sorte fu segnata. Come nella rivoluzione francese, gli effetti dell’ 89 si videro solo tre anni dopo, con la tangentopoli del 92. Ma non fummo noi magistrati a dissolvere il partito, che peraltro aveva superato, indenne, crisi anche peggiori. La Dc fu abbandonata dagli imprenditori, che ne denunciarono l’esosità senza più temerne le rappresaglie; dalla Chiesa, che in nome dell’etica stigmatizzò quella corruttela che fino ad allora aveva tollerato e talvolta anche condiviso; e persino dagli elettori del devotissimo Veneto bianco, che votarono compatti la Lega: il partito, non avendo realmente una storia, perdette anche la geografia.
Come si vede, la parabola ascendente del partito cristiano durò finché ci fu De Gasperi; la sua eredità, peraltro accettata con un livoroso beneficio di inventario, fu gestita prima con prudenza,poi con pigrizia, infine con disinvolto cinismo. Quando il timore del comunismo si mitigò, anche a seguito di un timido strappo con la chiesa moscovita, i due colossi si accordarono per un compromesso poco storico, ma molto bottegaio. Gli antichi avversari, trinariciuti e mangiabambini, furono cooptati nella gigantesca greppia di uno Stato sprecone, che creò un gigantesco debito pubblico di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. La domanda iniziale può dunque essere rivoltata : non perché il partito cristiano non esista più, ma come abbia fatto a vivere così tanto. La risposta, paradossalmente, è quella concordataria: simul stabunt, simul cadent: fusi la falce e il martello, anche lo scudo crociato si è rivelato inutile.
Queste riflessioni non sono un puro esercizio accademico, perché la dissoluzione di questi due partiti ha mantenuto indenne il frutto più importante della loro collaborazione: quella Costituzione che,con fatica, oggi si prova a cambiare.
La Costituzione fu, per parafrasare una nota espressione di Benedetto Croce, un monumento di sapienza politica. Essa operò il miracolo di conciliare due ideologie confliggenti, dando un’ impeccabile veste formale a una saggia serie di compromessi etici, istituzionali ed economici. Evitò un’ulteriore esasperazione degli animi, già incattiviti dalla guerra civile e da un dopoguerra di rancori e di vendette. Pose le basi di una rinascita industriale che, tra le fisiologiche ingiustizie delle disuguaglianze umane, migliorò la vita dei contadini, degli operai, e in generale dei più bisognosi. I democristiani accettarono una potente iniezione di marxismo, a cominciare dall’articolo 1 – L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro – che oggi evoca le cupe atmosfere brezneviane. I comunisti accettarono la costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi, il frutto più succulento, e per taluni avvelenato, della pace tra Mussolini e il Vaticano. Il debito di gratitudine verso i padri costituenti è, sotto questo profilo, impagabile.
Ma le stesse ragioni che produssero la nostra Costituzione militano ora per la sua riforma radicale. I suoi due pilastri politici e culturali sono franati, mantenendo una facciata che nasconde una rovina: il cristianesimo si è radicalmente secolarizzato, il marxismo è morto, e il timore di un potere esecutivo troppo forte, che aveva assillato i reduci di una dittatura, è oggi sostituito dall’esigenza di un governo stabile e duraturo, in un complesso normativo più duttile e più liberale. Anche a questo gli italiani devono ora dare una risposta, nella consapevolezza che i miracoli accadono di rado: l’accordo tra Togliatti e De Gasperi, difficilmente potrà essere ripetuto con Grillo e Salvini.