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 2016  novembre 29 Martedì calendario

L’autarchia salverà il nostro calcio

Se l’Atalanta è autarchica, allora viva l’autarchia. Detta così, è una parola che sa di vecchio e di chiusura verso il mondo. Presa in un altro modo, può essere invece la salvezza del calcio italiano dopo anni passati a invidiare il giardino degli altri, a studiare il modello Bundesliga, i centri federali francesi, le accademie spagnole. Il calcio italiano s’è desto, si è dato una mossa e ha capito che continuare a spendere soldi per ingrassare i club stranieri aveva poco senso. Ora tutti a riempirsi la bocca con l’Atalanta, e anche con il Sassuolo, ma a Bergamo sono anni che coltivano le perle in casa, l’età media è di 26 anni e spicci, e non è neanche così bassa, tanto che nei cinque campionati europei più importanti occupa il 27° posto. Meglio fa il Milan, che grazie a Donnarumma (ragazzo del ’99) iscrive all’anagrafe del pallone una rosa che supera di poco i 25 anni. E che sabato scorso a Empoli ha messo in campo la formazione più giovane degli ultimi trent’anni: 23,6 anni di media.
Atalanta e Milan sono i due poli del fenomeno, hanno fatto la rivoluzione partendo da assunti ben diversi: a Bergamo le idee e gli ideali; a Milano la necessità e poi la virtù. Colpisce, in effetti, il Milan: tirare la cinghia non fa poi così male, se è vero che grazie alla dieta Fininvest, e all’occhio coraggioso di certi tecnici, sono spuntate gemme come Donnarumma, De Sciglio e Locatelli. Romagnoli è stato invece un azzardo economico: è costato 25 milioni, ma il Milan si è garantito l’uovo oggi e, chissà, la gallina domani.
Nel campionato italiano hanno giocato finora 125 under 23 (il 26% dei 480 calciatori con almeno un presenza), un numero che ci vede secondi solo alla Ligue 1 (149 su 466, il 32%). I numeri sono anche libertà e questi ci fanno capire come qualcosa stia davvero cambiando. Ancora: la Lazio è la squadra che fin qui ha schierato più under 23 (11, ma solo tre italiani). L’esempio lo dà l’Atalanta, dove ben cinque dei sei under 23 fin qui messi in campo hanno il nostro passaporto, una speciale classifica che vede al secondo posto il Torino: Urbano Cairo, dopo aver buttato quattrini (non tanti in verità) e idee (a volte pure strampalate) alla ricerca di bufale straniere o di stracotti italiani, da un paio d’anni ha cambiato finalmente rotta: spende, ma per i giovani. Risultati: 6 under 23 buttati nella mischia da Mihajlovic, quattro sono italiani. E i risultati per Milan, Atalanta e Torino sono lì da vedere e da lucidare. Come da lucidare è Moise Kean: sedici anni, un piede in serie A, la puntata della Juventus sul futuro.
Poi, certo, di strada in Europa non ne fai senza stelle (pure se le certezze in merito sono pochine), ma da qualche parte bisognava cominciare. E si è cominciato. Il mood è comune. Persino Lotito, forse per caso, l’ha capito: ha inseguito invano un guru argentino (Bielsa) e ora si coccola un tecnico fatto in casa come le crostate della nonna: Simone Inzaghi ha salito tutti i gradini del club fino a meritarsi la prima squadra. Quarto in classifica e una bella testa. Che poi questo giovi alla nazionale è un risultato difficile da pronosticare: l’asticella in azzurro si alza, per scavalcarla non basta essere giovani. Però Ventura un po’ si frega le mani e non fa tanto lo schizzinoso: i suoi predecessori ritenevano inutili gli stage cui partecipavano solo le promesse, lui no. Gli hanno recapitato una Nazionale non esattamente di primo pelo e prima o poi dovrà svecchiarla. Meglio allora portarsi avanti con il lavoro. «Io sono un autarchico», pare essere la formula 2.0 per il nostro calcio, Moretti non se ne abbia a male. Quarant’ anni dopo ci può stare.