la Repubblica, 29 novembre 2016
Se Sherlock Holmes va a caccia di Moby Dick
Quando pubblicò la prima storia di Sherlock Holmes (“Uno studio in rosso”, 1887), Arthur Conan Doyle aveva solo ventisette anni: abbastanza, comunque, per aver già pubblicato su rivista diversi racconti. Il primo si intitolava “Il capitano della Pole Star” (1882), e metteva in scena una nave infestata dagli spettri durante un viaggio artico: evidenti le suggestioni di Poe, soprattutto per il Gordon Pym, ma a essere decisiva fu l’esperienza personale. Nel 1880 infatti, ventenne, Doyle abbandona improvvisamente gli studi di medicina e senza un apparente motivo si imbarca come medico di bordo su una baleniera, che in un viaggio di sei mesi lo porterà dalla Scozia fino al cuore del Circolo Polare Artico, fra la Groenlandia e le isole Spitzbergen. Come medico, Doyle è tenuto a redigere un asciutto bollettino: la sua innata propensione alla scrittura lo spinge invece a tenere un diario ove ai dati relativi alla navigazione e alla caccia a foche e balene si alternano confessioni sentimentali, esercizi poetici, ritratti dei compagni, resoconti di conversazioni, alterchi, scontri di pugilato: e soprattutto disegni, disegni della banchisa, degli animali vivi e di quelli uccisi, delle nuvole, delle onde, della lavorazione del grasso di balena. Pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 2012 a cura di Jon Lellenberg e Daniel Stashower, il diario, con 64 splendide tavole a colori che ne riproducono le pagine con i disegni, esce ora in Italia ( Avventura nell’Artico, Utet, traduzione di Davide Sapienza), e rilascia una potente energia melvilliana: tuttavia Doyle non sembra aver letto Melville, che non cita mai. Ma anche senza voler imitare l’Ismahel di Moby Dick, egli si imbarcò certamente obbedendo a un desiderio di avventura: lo intuiamo dall’iniziale delusione allo scoprire che la baleniera non è una nave sinistra («gli ottoni splendono e i ponti sono immacolati»), e dall’insofferenza relativa alla quiete della navigazione («Non ho fatto niente tutto il giorno», annota stizzito il 6 marzo). Addirittura, rimane deluso come un bambino dal fatto che, durante gli scali, non nascano mai risse fra gli uomini dell’equipaggio e i locali («Oggi ho il permesso dal capitano di andare da Queen’s con alcuni dei più grossi sottoufficiali per vedere se riusciamo a fare una rissa»). Per questo nelle prime settimane le pagine più vive sono quelle dedicate ai ritratti dei compagni, dal capitano Gray, «magnifico marinaio» che sembra uscito da un romanzo di Conrad, al robusto cambusiere, con cui Doyle si esercita nel pugilato, a un certo macchinista affamato di cultura («L’altra sera il primo macchinista è salito dalla sala del carbone e al chiaro di luna sul ponte mi ha sfidato a parlare di darwinismo. L’ho massacrato»). Ma bastano gli avvistamenti delle prime foche a elettrizzare l’impaziente medico di bordo, che fino al termine della spedizione redigerà meticolosissime tabelle per registrare il numero delle prede, la specie, il sesso, l’età, e quante uccise da chi e con che tecnica, e quante da lui in persona, e con quanto profitto totale e quanto pro capite, eccetera. Alla fine le vittime saranno più di 3.600, cifra giudicata da Doyle appena sufficiente ad ammortizzare i costi del viaggio. Colpisce il cinismo della contabilità, appena temperato da un moto di pietà («È un mestiere maledetto quello di fracassare la testa alle piccole disgraziate mentre ti guardano in faccia con i loro grandi occhioni neri») e da un tardivo pentimento («le abbaglianti pozze cremisi sul bianco sfolgorante delle distese ghiacciate, immerse nella pace e nel silenzio dell’azzurro cielo artico, a me apparivano davvero un’orrenda violazione»). Ma ancora una volta è la letteratura a imporsi, e a dettare un autoritratto all’altezza di un romanzo di avventure: «Avevo i capelli dritti, la faccia ricoperta di sporco e sudore, le mani insanguinate. Portavo gli abiti vecchi, gli stivali splendevano di acqua ed erano incrostati dalla neve in alto. Intorno alla giacca una cintura con un coltello nel fodero e un pugnale infilato dentro, il tutto con il sangue rappreso. Intorno alle spalle avevo un rotolo di corda e in mano tenevo una lunga ascia da beccaio imbrattata di sangue».
Entrato finalmente in una dimensione romanzesca, Doyle è pronto a incontrare le balene, ma nuovamente è destinato alla delusione: le prede sono solo due e non particolarmente grosse, e soprattutto sono catturate e uccise con estrema facilità, senza l’epica battaglia che lo scrittore aveva messo in conto. Così, quando alla fine del diario annota che non rivedrà più i lastroni di ghiaccio fra i quali ha dato la caccia all’«astuto cetaceo», abbiamo l’impressione che si prenda in giro da solo. L’animale più importante del diario, in effetti, è quanto di più lontano possa esserci da una balena: «Ho tirato su uno splendido clio, mollusco marino lungo cinque centimetri che sembrava uno spiritello bizzarro. L’ho messo in salamoia e battezzato John Thomas. Spero che riesca a vive- re, gli abbiamo messo del burro e del maiale nella sua casetta»; e poi: «John Thomas è la mia grande passione. Seduto in un angolo con la coda in bocca, sembra un bambino imbronciato che si cuccia il pollice». Finché, alla sua morte, Doyle gli regala una vera e propria orazione funebre: «John Thomas – Morto l’8 giugno – Compianto da una vasta cerchia di conoscenti (…). Era un umile e modesto grumo di protoplasma (…). È passato a miglior vita, dunque che la pace sia con le sue molecole».
Ma nonostante le delusioni quel viaggio dovette lasciare in Doyle un segno profondo. Cinquant’anni dopo, poco prima di morire, lo scrittore fece un disegno in cui rappresentava se stesso come un vecchio e macilento cavallo che tira un carro, sopra il quale sono ammassate molte balle di merce intitolate «studio medico» oppure «Sherlock Holmes» oppure «romanzi storici» eccetera: in cima al mucchio, sopra a tutto il resto, un collo con la scritta «Artico».