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 2016  novembre 29 Martedì calendario

«Il killer conta poco la verità su mio padre è fuori dal processo». Intervista a Paola Caccia

TORINO La cosa più difficile? «Imparare a non sorridere. Io non posso sorridere. Ogni mio sorriso, anche in fotografia, è inevitabilmente una stonatura». Non succede solo oggi. Si capisce che a Paola Caccia capita da almeno 33 anni, da quando, una sera di giugno, suo padre Bruno, il Procuratore Capo di Torino, è stato ucciso sotto questa casa, alla base della collina torinese. Cinque giorni fa il pm di Milano ha chiesto l’interruzione del processo contro il presunto autore dell’omicidio, il panettiere Rocco Schirripa, per un vizio di forma.
Signora Paola, ancora un rinvio per conoscere la verità?
«È sconcertante. Siamo rimasti tutti senza parole. Soprattuto perché gli elementi di prova acquisiti nell’ultimo anno andranno irrimediabilmente in fumo».
Pensavate di essere vicini alla verità?
«La verità è una parola grossa. Anche se si accertasse che Schirripa è l’esecutore materiale dell’omicidio di mio padre, quello sarebbe un pezzo molto piccolo della verità».
Dove sta la verità allora?
«Mi sono chiesta spesso se la verità non stia fuori dal perimetro del processo che adesso rischia di saltare».
Parla dei mandanti?
«Per esempio. Parlo anche delle inchieste che mio padre stava seguendo prima di essere ucciso».
Che cosa ricorda di quei giorni?
«Mio padre era una persona molto riservata. In casa non raccontava mai nulla. Era il suo modo di tutelarci. Ma poco prima di morire, andando a trovare i nipotini aveva detto a mio fratello: ‘Tra poco verrà fuori una cosa enorme’».
Avete capito che cosa poteva essere?
«Stava indagando sul riciclaggio al Casinò di Saint Vincent e sui rapporti tra il Casinò e la criminalità organizzata».
Avete mai chiesto che si indagasse su questa pista?
«Nei primi tempi si indagò in quella direzione ma poi quel filone si arenò. Ci hanno detto invece che mio padre è stato ucciso dal clan dei calabresi perché aveva tenuto in carcere per errore uno di loro. Schirripa sarebbe l’esecutore materiale di quel disegno».
E questo non vi convince?
«Noi abbiamo sempre avuto piena fiducia nella magistratura. Certo, questo errore giudiziario ci ha sorpreso molto».
Chi avrebbe dovuto essere ascoltato nelle prossime udienze del processo?
«C’è stata in aula molta discussione sull’utilità di interrogare come teste Angelo Epaminonda, capo dei catanesi a Milano negli anni ‘80».
Lei ha seguito tutte le udienze, si è studiata ogni carta. Pensa che, dentro o fuori quello che lei chiama ‘il perimetro’ del processo, si possa un giorno arrivare ai mandanti?
«Io ne sono convinta. E in ogni caso so che devo provare a percorrere tutte le strade. Lo devo a mio padre, certamente. Ma lo devo anche e soprattutto a mia madre che per 25 anni, finché è rimasta in vita, ha avuto una fiducia cieca nella giustizia».
Non avrebbe potuto essere altrimenti. Era la moglie del Procuratore Capo di Torino...
«Infatti. E pagava tutti i giorni la sua scelta. Sul pianerottolo della casa dove abitavamo prima di trasferirci qui c’erano due uomini della scorta che si davano il turno quando mio padre era in casa. Negli anni del terrorismo eravamo continuamente minacciati».
Quando capì che suo padre non era stato ucciso dalle Br?
«Subito. C’era un processo in corso e lessero in aula un durissimo comunicato: ‘Lo avremmo ucciso volentieri ma non siamo stati noi’».
Perché ci sono voluti 33 anni per arrivare a un processo oggi abortito?
«Ce lo siamo chiesti tante volte. Siamo andati avanti grazie all’aiuto di associazioni come Libera, del nostro legale Fabio Repici, degli amici che in questi anni ci hanno incoraggiato».
Ora che cosa farete?
«Continueremo a cercare la verità con tutti i mezzi. Non solo quella dentro il perimetro di un processo che è sull’orlo del fallimento. Ma soprattutto l’altra, quella sulla quale in questi anni avremmo voluto che si indagasse di più. Guardi che bella questa fotografia. Sono loro due in viaggio di nozze a Napoli. Una foto in bianco e nero, quasi d’arte. Sembra Cartier Bresson».